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Degenerazione maculare: attenti ai segnali (e come scoprirli)

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Immaginate la superficie di un muro bianco, lucido, perfettamente liscio, su cui vengono proiettate delle immagini. Ogni dettaglio appare nitido. Ora immaginate che all’interno di questo muro si rompa una tubatura e si verifichi una perdita d’acqua: l’intonaco si solleva e le immagini si distorcono. Bisogna intervenire il prima possibile, prima che la chiazza di acqua si espanda e il muro si danneggi.

“Negli occhi può succedere qualcosa di molto simile”, dice Giovanni Staurenghi, Ordinario di Malattie dell’apparato visivo presso l’Università Statale di Milano, Ospedale Sacco: “La retina è come un muro dietro al quale si possono formare nuovi vasi sanguigni difettosi, che causano continue perdite e ‘macchie di umidità’, che compromettono la vista”.

Questa condizione ha un nome: degenerazione maculare senile neovascolare o, per l’appunto, umida. Esiste anche un’altra forma di degenerazione maculare, detta secca o atrofica, in cui è come se l’intonaco del muro si sgretolasse e si formassero dei buchi in cui non è più possibile proiettare immagini. Se ne parla poco, ma è una malattia frequente: si stima che le due forme, insieme, interessino oltre un milione di persone in Italia e che rappresentino la più comune causa di cecità e ipovisione dopo i 55 anni.

Cosa accade agli occhi

La parte della retina colpita è quella centrale, chiamata macula, a cui si deve la visione “di dettaglio” grazie alla quale, per esempio, riusciamo a leggere. La visione periferica, invece, resta inalterata. Ma cosa accade negli occhi? “All’inizio – risponde Staurenghi – si formano dei depositi rotondeggianti sul fondo dell’occhio, chiamati drusen. In questa fase l’acuità visiva non diminuisce, ma può risultare più difficile vedere al buio o si rimane abbagliati dalla luce più facilmente”.

È la forma avanzata – secca o umida – che però mette a rischio la vista: “La degenerazione maculare secca progredisce molto lentamente, mentre nella forma umida il fattore tempo gioca un ruolo importantissimo ed è bene andare il prima possibile dall’oculista o al pronto soccorso, entro massimo due giorni da quando ci si accorge che i dettagli, per esempio lo stipite di una porta, osservati con un occhio per volta appaiono deformati”.

Se per la forma secca al momento non ci sono cure, per la forma umida ci sono state diverse novità negli ultimi anni, e alcune importanti sono in arrivo. A cambiare la storia di questa malattia sono state le terapie mirate in grado di “colpire” Vegf-A (il fattore di crescita vascolare endoteliale-A), una proteina che promuove la crescita di vasi sanguigni sotto la retina e ne aumenta la permeabilità. Inibendo il Vegf-A è possibile arrestare la perdita di liquido e recuperare qualche decimo di vista.

I farmaci utilizzati sono anticorpi monoclonali – ranibizumab o brolucizumab – o proteine di sintesi – come aflibercept – che si somministrano direttamente nell’occhio attraverso iniezioni intravitreali, e che oggi sono diventati lo standard di cura.

Una delle novità attese per il prossimo anno riguarda un nuovo anticorpo monoclonale appena approvato negli Usa, faricimab. È un anticorpo detto bispecifico perché ha due bersagli: Vegf-A e l’angiopoietina-2 (Ang-2), un’altra proteina che, se presente in eccesso, altera lo sviluppo dei vasi sanguigni e li rende più infiammati e fragili. Negli studi clinici pubblicati di recente su Lancet, questo farmaco ha dimostrato la stessa efficacia dei farmaci attuali per quanto riguarda il recupero della vista, con il vantaggio di poter essere somministrato a intervalli maggiori (ogni 3-4 mesi invece che ogni 1-2).

Uno degli obiettivi della ricerca è infatti quello di allungare i tempi tra le iniezioni il più possibile. I motivi sono facili da capire. Il primo è l’accesso alle terapie: i pazienti sono anziani, magari abitano lontano dagli ospedali o non possono andarci da soli. Il secondo riguarda la capacità degli ospedali di rispondere alla grande richiesta e assicurare la continuità di cura: “Oggi – sottolinea, infatti, l’esperto – sappiamo che l’approccio che dà i risultati migliori è quello proattivo, in cui il paziente viene trattato prima che si formi nuovamente del liquido. In cui, cioè, siamo in grado di prevenire le fasi acute”.

Ecco perché un’altra strada promettente è quella dei micro-dispositivi a “lento rilascio”: impianti oculari riempiti con uno dei farmaci, il ranibizumab. Si tratta di una terapia di mantenimento che ha il vantaggio di richiedere un nuovo riempimento ogni 6 mesi (24 settimane) e di liberare il farmaco in modo costante, senza picchi.

“Questa strada potrebbe rivelarsi la più efficace per conservare l’acuità visiva nel lungo periodo. È fondamentale – conclude Staurenghi – che a livello della sanità regionale la scelta della terapia non si basi solo sul prezzo dei farmaci, ma consideri il costo dell’intero percorso di un paziente, compresa la perdita di giornate di lavoro degli accompagnatori dovuta al maggior numero di visite, oltre al vantaggio di liberare spazi e personale per trattare nuovi pazienti”.

Il test

C’è un esercizio che aiuta a capire se c’è un problema alla macula e che si può fare anche da soli: il test di Amsler. Si utilizza l’immagine di un quadrato di circa 10 centimetri di lato, suddiviso in quadratini più piccoli (a formare una griglia) e con un pallino nero al centro. Bisogna fissare il pallino da una distanza di circa 30 centimetri, prima con un occhio e poi con l’altro (indossando i propri occhiali da vista se si utilizzano normalmente): se i quadratini appaiono di forme irregolari o di dimensioni diverse, le linee sembrano storte o compaiono delle macchie più o meno scure, è necessaria una visita al più presto dal proprio oculista, o recarsi al pronto soccorso se le alterazioni permangono dopo due giorni.



www.repubblica.it 2022-04-19 13:23:53

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