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Prove di trattamento contro la sindrome della “mucca pazza”

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Un’equipe dello University College London ha sperimentato per la prima volta al mondo un farmaco contro la sindrome della mucca pazza. O meglio contro la malattia di Creutzfeldt-Jakob (Cjd), una rara malattia neurodegenerativa che porta in tempi molto rapidi alla demenza e alla morte, arrivata agli onori delle cronache negli anni Novanta quando il suo corrispettivo bovino si era abbattuto sugli allevamenti inglesi. Secondo quanto riportato nello studio pubblicato su Lancet Neurology, sei pazienti hanno ricevuto un anticorpo monoclonale, con risultati che gli scienziati definiscono “molto incoraggianti”.

 

La malattia di Creutzfeldt-Jakob

Il morbo  di Creutzfeldt-Jakob (Cjd) è una malattia neurodegenerativa fatale causata dalla mutazione genetica di una proteina di membrana del cervello, il prione. Nella sua forma più comune, la Cjd sporadica, l’incidenza annuale è di 1-2 casi per milione di persone e ha una progressione rapidissima, tipicamente intorno ai sei mesi. L’incidenza è rimasta costante negli ultimi 80 anni circa, ma questo nome è rimasto noto all’opinione pubblica perché legato all’emergere di  una sua variante rara che ha riempito le pagine della cronaca di un passato recente: l’encefalopatia spongiforme bovina, o sindrome della “mucca pazza”. In generale, comunque, si tratta di una malattia il cui unico epilogo arriva molto più velocemente di qualunque altra forma di demenza, perché la morte può sopraggiungere in soli tre mesi, con un’aspettativa di vita attorno all’anno e mezzo. Ad oggi, purtroppo, non esistono terapie farmacologiche utili ad alleviare o ritardare il decorso della malattia.

Il nuovo farmaco, che ha ottenuto un’autorizzazione speciale da un comitato di esperti medici, accademici, avvocati e farmacisti dello University College London Hospital, è stato somministrato per via endovenosa ai pazienti previa autorizzazione degli stessi (o delle famiglie e di un giudice nel caso in cui essi non potessero farlo direttamente). Questa autorizzazione speciale consente a un operatore sanitario di trattare un singolo paziente con un farmaco non autorizzato quando i suoi bisogni clinici speciali non possono essere soddisfatti da un prodotto autorizzato sul mercato (un po’ come avviene per l’uso compassionevole off-label in Italia). Il dosaggio dell’anticorpo monoclonale, chiamato Prn100, è stato  aumentato in modo progressivo nei sei pazienti (due uomini e quattro donne) fra ottobre 2018 e luglio 2019, raggiungendo la concentrazione prevista in 22-70 giorni circa.

 

Arginare la neurodegenerazione

I risultati mostrano che il trattamento è sicuro ed è stato in grado di arrivare al cervello. In tre dei sei pazienti la progressione della malattia è sembrata stabilizzarsi quando è stato raggiunto il dosaggio finale del farmaco (quello previsto, per l’essere umano, dagli studi in laboratorio). Nessuno dei sei pazienti ha sperimentato effetti collaterali o reazioni tossiche durante il trattamento, ma tutti sono purtroppo morti a causa della loro condizione. Il principale limite di questa sperimentazione, oltre alla ridotta statistica sui pazienti, riguarda il tempo di somministrazione di Prn100: la necessità di monitorare costantemente le reazioni all’aumentare del dosaggio ha fatto sì che il tempo di raggiungimento della concentrazione prevista per il farmaco fosse clinicamente significativa, tanto da non poter competere con il decorso rapido della malattia.

«Anche se il numero di pazienti che abbiamo trattato era troppo piccolo per determinare se il farmaco abbia alterato il corso della malattia, questo è comunque un importante passo avanti nella lotta contro le infezioni da prioni» ha commentato John Collinge, professore dell’Ucl e primo autore dello studio. «È stata una sfida enorme raggiungere questa pietra miliare e abbiamo ancora molta strada da fare, ma abbiamo imparato molto e questi risultati giustificano ora lo sviluppo di una sperimentazione clinica formale su un numero maggiore di pazienti».

Se il farmaco si dimostrasse efficace, poi, gli scienziati pensano che esso potrebbe essere utile anche per prevenire l’insorgenza dei sintomi nelle persone considerate a rischio di malattia da prioni a causa di mutazioni genetiche o esposizione accidentale, e che potrebbe anche essere impiegato per lo sviluppo di terapie per demenze più comuni, come il morbo di Alzheimer, ha concluso Collinge.



www.repubblica.it 2022-04-20 16:42:54

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