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Disinnescare un trauma: vi spiego come ci siamo riusciti studiando il cervello

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I ricordi traumatici affliggono moltissime persone: si stima che la percentuale di chi ne è affetto sfiori il 7% della popolazione. Le terapie più efficaci sono basate sul principio dell’esposizione, in ambiente sicuro, al ricordo, in modo che si possa desensibilizzare, nel tempo, il paziente. Il problema, però, è che queste terapie hanno successo soprattutto quando il ricordo è recente. Per i ricordi traumatici antichi servono nuove strade.

Un importante passo avanti in questo senso – la scoperta di una piccola regione del cervello, il nucleus reuniens, che deve attivarsi per poter disinnescare le emozioni negative associate al ricordo traumatico antico – è valso alla ricercatrice del Cnr Bianca Ambrogina Silva, leader di un gruppo di ricerca all’Istituto Humanitas, un “Erc Starting Grant” assegnato dall’European Research Council.

Bianca Ambrogina Silva, che ha lavorato presso il prestigioso Embl (European Molecular Biology Laboratory) e al Politecnico di Losanna, è tornata in Italia dalla Svizzera grazie al programma ministeriale per il rientro dei cervelli.

Bianca Ambrogina Silva

Bianca Ambrogina Silva 

Perché i ricordi traumatici, col tempo, diventano più difficili da rimuovere?
“I ricordi recenti e quelli remoti vengono immagazzinati in circuiti completamente diversi del cervello. Quindi per modificare i ricordi remoti, aggiungere nuove informazioni e fare in modo che le reazioni emotive che questi ricordi scatenano vengano attenuate, dobbiamo usare meccanismi diversi rispetto a quelli che useremmo per i ricordi recenti. È stato studiato come attenuare le emozioni negative legate ai ricordi recenti, ma non altrettanto per i ricordi remoti. E questa è una lacuna grave perché nella maggior parte dei casi i traumi che portano a problemi psichiatrici come il disturbo da stress post traumatico derivano proprio da eventi che risalgono al passato più lontano. Questa è la situazione più frequente, eppure non mai è stata studiata. E questa è una delle cose che facciamo in laboratorio.

Qual è stata fino ad oggi la difficoltà principale nel capire come attenuare l’effetto traumatico dei ricordi remoti?
“Il problema principale è che sperimentalmente bisogna aspettare molto tempo perché il ricordo venga codificato come remoto. E poi i ricordi recenti vengono immagazzinati in circuiti cerebrali più semplici e più circoscritti. Mentre con il passare del tempo, i ricordi, consolidandosi, iniziano ad essere immagazzinati in circuiti molto più distribuiti, che quindi riguardano molte più aree del cervello. E in passato mancavano i mezzi per studiare queste aree. Invece oggi, grazie allo sviluppo di varie tecniche per lo studio dei circuiti neuronali, che vanno dall’analisi di attivazione a livello di intero cervello, all’optogenetica, alle misure di attività neuronali in vivo… oggi è finalmente possibile studiare dei ricordi che vengono immagazzinati in maniera distribuita nel cervello”.

Bianca Ambrogina Silva

Bianca Ambrogina Silva 

Come si possono modificare i ricordi traumatici remoti?
“Se ho fatto un’incidente d’auto, è normale che io abbia avuto paura in quel momento. Ma se mi torna in mente l’incidente mentre sono a casa sul divano, non è più normale che io provi di nuovo paura. Il ricordo non mi dovrebbe scatenare risposte emotive così forti. Se questo succede raramente, non è un problema. Ma se succede spesso, diventa un disturbo psichiatrico…”.
 

Comunque voi non volete cancellare i ricordi traumatici, giusto?
“Non vogliamo rimuovere il ricordo, ma disinnescare la sua componente emotiva. Per capire come fare siamo partiti da ciò che succede quando il ricordo viene creato. Questo è stato studiato molto e si sa che durante la creazione del ricordo traumatico è coinvolto un circuito relativamente semplice, l’amigdala, il centro cerebrale della paura, che scatena le reazioni emotive e viene tenuta sotto controllo dalla corteccia frontale, parte del cervello più recente evolutivamente, che ci permette processi cognitivi più complessi. Questo circuito era noto. Io mi sono chiesta se questo stesso circuito semplice fosse quello che ci permette di elaborare i ricordi quando sono vecchi. Ma, studiandolo con tecniche avanzate, ho visto che – stranamente – quando processiamo ricordi remoti, questo circuito non si attivava. Tramite la psicoterapia è possibile disinnescare la reazione emotiva associata al ricordo remoto, ma non attraverso questo circuito classico. Così mi sono detta: “Visto che il processo avviene, ma non è mediato dal circuito fronto-amigdalo, ci deve essere qualcos’altro che lo fa”.

E come avete trovato la risposta?
“Abbiamo analizzato tantissime aree del cervello contemporaneamente per cercare di capire quale di queste fosse coinvolta nell’attenuazione dei ricordi traumatici remoti.  Avendo osservato che nel caso dei ricordi remoti la corteccia prefrontale non comunica con l’amigdala, presumevamo che ci fosse qualche altro circuito che comunicasse con l’amigdala. Così abbiamo guardato attraverso tutto il cervello in tutte le aree e che si sa che sono collegate anatomicamente con l’amigdala, e abbiamo cercato di capire se qualcuna di queste connessioni fosse attiva. E finalmente ne abbiamo trovata una: nel talamo”.
 

Curioso, perché il talamo generalmente non si associa alla memoria o alla paura…
“E infatti eravamo stupiti. C’è una parte del talamo, detta talamo mediale, che è molto poco studiata. Abbiamo visto che negli altri (pochi studi) fatti su questa regione, era stata trovata un’associazione con la memoria. Il talamo generalmente non c’entra con la memoria, ma con i cinque sensi: è la regione che permette la comunicazione dalla periferia dei sensi verso il cervello. Ma una piccola regione del talamo mediale, il nucleus reuniens, si attiva durante l’attenuazione di ricordi traumatici. Per essere sicuri che veramente fosse questa l’area necessaria per l’attenuazione dei ricordi traumatici, l’abbiamo spenta (nei modelli animali) e abbiamo constatato che le strategie per attenuare i ricordi traumatici, come la terapia di esposizione ripetuta allo stimolo associato al trauma, non avevano più effetto. Al contempo abbiamo visto che se attivavamo ancora di più il nucleus reuniens, durante la terapia di esposizione, i topi attenuano molto prima e molto più efficacemente il ricordo traumatico. Questa è stata la controprova”.

Come riuscite a spegnere una regione del cervello?
“C’è un sistema, sviluppato in California, circa dieci anni fa, con il quale noi possiamo a nostro piacimento attivare o spegnere dei neuroni specifici. Con la luce. Prima, per vedere se un’area è necessaria per qualcosa, si produceva una lesione nel cervello, bruciando quei neuroni, e si analizzava ciò che succedeva. Ma questo sistema era impreciso, danneggiava anche neuroni di altre aree, ed era poco duttile: i neuroni hanno tutti una loro certa frequenza di attivazione che è fondamentale per la loro funzione, che ha dei tempi molto veloci. Decine di millisecondi. Cosa possiamo usare per modificare questa attivazione neuronale a nostro piacimento? Ci serve qualcosa che abbia una velocità simile. Ovvero la luce, visto che posso spegnerla e accenderla con una risoluzione temporale elevatissima. Quindi dei ricercatori californiani hanno trovato il modo di rendere i neuroni direttamente sensibili alla luce.  Hanno preso degli organismi unicellulari, sia alghe che batteri, che sono sensibili alla luce: hanno una proteina sulla loro membrana che reagisce alla luce e li spinge a muoversi verso la fonte luminosa. Questa proteina, per effetto della luce, si apre e lascia filtrare all’interno degli ioni, quindi provoca un segnale elettrico. Un processo simile a quello che avviene nella nostra retina: abbiamo proteine che rispondono alla luce e trasformano il segnale luminoso in segnale elettrico. Quindi abbiamo preso il gene della proteina delle alghe fotosensibili e lo abbiamo usato per far produrre ai neuroni questa proteina. Il mezzo è stato un virus, visto che i virus sono specializzati nell’iniettare il loro materiale genetico nelle cellule ospiti. Iniettando il virus nel nucleus reuniens, abbiamo reso quei neuroni sensibili alla luce. Poi, per portare la luce all’interno del cervello, usiamo un piccolo impianto, non doloroso, con una fibra ottica. A questo punto possiamo, tramite un laser, accendere o spegnere i neuroni a nostro piacimento”.

Quindi per riassumere: la cosa importante è che l’area che voi avete individuato, il nucleus reuniens, sia particolarmente attivo durante la terapia di esposizione. Se si riesce a ottenere questo, allora la terapia di esposizione, anche per i ricordi remoti, avrà molte più probabilità di avere successo.
“E la mia ipotesi è che nelle persone in cui la terapia di esposizione non funziona, che sono le persone affette da disturbo di stress post traumatico, non si attivi bene questa parte del cervello. E quindi non funziona il processo di attenuazione del ricordo traumatico. D’altronde degli studi mostrano che nei pazienti affetti da disturbo da stress post-traumatico c’è meno attivazione talamica. Se noi riusciamo ad aiutarli ad attivare questa parte del cervello possiamo contribuire a curare la malattia”.

È la prima volta che…
“È la prima volta che si scopre quale area del cervello ci permette di attenuare la paura legata ai ricordi traumatici”.

Ora come amplierete questa ricerca?
“Una cosa che è ancora poco chiara in Italia è che i disturbi della psiche dovuti ai traumi, disturbi che spesso non permettono di lavorare, sono veramente molto frequenti. Il 7% è una percentuale molto alta. In Italia la psichiatria, rispetto ad altri Paesi, ancora molto sottovalutata. E la diffusione del disturbo da stress post traumatico è cresciuta molto con la pandemia: non solo tra gli operatori sanitari, ma anche nella popolazione generale. Il PTSD è uno degli strascichi della pandemia: si risolveranno i problemi ai polmoni, ma chi ha subito un trauma se lo porterà dietro per anni. E non si sta pensando molto a come curare queste persone, sia perché la psicoterapia è negletta, in Italia, che per il fatto che non esistono molte cure. Ed è per questo che noi cerchiamo di sviluppare una terapia. La Comunità Europea sta stanziando molti fondi anche perché tra disastri naturali, climatici e migrazioni si prevede che il PTSD diventerà ancora più diffuso”.

Quali sono i prossimi passi?
“Noi abbiamo scoperto il ruolo del nucleus reuniens in modelli di topo sano, dove il trauma è stato creato tramite una piccola scarica elettrica alle zampe. Ma questa stimolazione elettrica non rispecchia del tutto un vero trauma, visto che i traumi sono esperienze molto complesse, anche quando non sono remote, ossia appena sono state generate, interessano molte aree del cervello. Quindi il prossimo passo sarà la creazione di un modello di ricordi traumatici complessi nel topo, e poi vedremo come l’attivazione del nucleus reuniens contribuirà a curarli”.

Se questa ricerca avrà successo, a che tipo di cura condurrà?
“Ci sono due approcci che stiamo sperimentando per provare a facilitare l’attivazione del nucleus reuniens. Il primo è farmacologico. Stiamo facendo degli esperimenti di trascrittomica (è la biotecnologia che analizza il trascrittoma, overo l’insieme degli RNA messaggeri che servono per produrre le proteine) in cui cerchiamo di identificare se ci sono dei recettori che sono specifici per queste cellule del nucleus reuniens. In modo che si possa sviluppare un farmaco che agisca su questi recettori – e quindi solo su questi neuroni del nucleus reuniens e non sugli altri neuroni – attivandoli, in modo da facilitare l’attenuazione dei ricordi traumatici. L’altra strada è lavorare su tutte le nuove tecnologie che stanno emergendo per la stimolazione cerebrale non invasiva. Ci sono varie tecniche che possono essere una via molto promettente. In particolare vorrei sviluppare un paradigma di neurofeedback. Consiste nell’insegnare ai pazienti, con dei training appositi, ad attivare da soli il loro nucleus reuniens. Si sottopone il paziente a risonanza magnetica, e gli si chiede di cercare di attivare questa regione. Quando la risonanza magnetica mostra l’attivazione del nucleus reuniens, significa che il paziente è riuscito nel compito e quindi gli si chiede di continuare a fare quello che stava facendo”.



www.repubblica.it 2022-08-06 05:07:26

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