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Tumore al fegato, anticipare l’immunoterapia riduce il rischio di progressione

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Da San Francisco, dove è in corso il Gastrointestinal Cancers Symposium dell’l’American Society of Clinical Oncology (ASCO GI), arrivano risultati incoraggianti per migliorare il trattamento del tumore al fegato, neoplasia che ogni anno in Italia conta più di 12 mila diagnosi, quasi tutte per carcinoma epatocellulare. Riccardo Lencioni dell’Università di Pisa ha infatti presentato i dati secondo cui è possibile migliorare gli esiti di una terapia classica contro il tumore al fegato per ridurre il rischio di progressione di malattia o morte grazie all’aiuto dell’immunoterapia, solitamente riservata agli stadi avanzati di questo tumore.

La TACE non basta

La terapia standard cui si fa riferimento è la cosiddetta TACE – acronimo di chemioebolizzazione trans-arteriosa -, una procedura che chiude i vasi sanguigni che sostengono la crescita del tumore, somministrando al tempo stesso in maniera diretta farmaci chemioterapici o radioterapia. Si tratta di un trattamento mini-invasivo, solitamente riservato ai tumori di stadio intermedio, ma dopo la terapia la malattia in molti pazienti torna o progredisce nel giro di un anno.

La combinazione con l’immunoterapia

L’efficacia della TACE può però essere aumentata se al trattamento si aggiunge la somministrazione di altri agenti antitumorali, in particolare un agente immunoterapico e un agente in grado di bloccare la crescita di nuovi vasi sanguigni. A dimostrarlo sono i risultati dello studio EMERALD-1, una sperimentazione di fase III su 600 pazienti con epatocarcinoma non resecabile ma eleggibile all’embolizzazione. Nello studio è stata testata l’efficacia di durvalumab (l’immunoterapico) in aggiunta alla TACE, con o senza bevacizumab (l’antiangiogenico). “I dati presentati oggi dimostrano come un approccio terapeutico combinato, che comprenda, oltre alla chemioembolizzazione, un trattamento sistemico con durvalumab e bevacizumab, sia in grado di aumentare in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione”, ha spiegato Lencini.

Nel dettaglio,durvalumab più TACE e bevacizumab hanno ridotto il rischio di progressione di malattia o di morte del 23% rispetto alla sola TACE. La sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata quasi il doppio in chi aveva ricevuto la combinazione con l’immunoterapico rispetto alla sola TACE (15 mesi contro 8,2 mesi). Nello studio la combinazione dei farmaci è stata associata a un maggior numero di eventi avversi di grado 3 e 4, anche se il profilo di sicurezza era per lo più compatibile con quello dei singoli farmaci.

L’immunoterapia in fasi più precoci

“L’immunoterapia con durvalumab ha già dimostrato di essere efficace nella malattia metastatica – ha aggiunto Vincenzo Mazzaferro, Professore di Chirurgia all’Università degli Studi di Milano e Direttore della Chirurgia Oncologica (epato-gastro-pancreatica) e Trapianto di Fegato alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – Lo studio EMERALD-1 evidenzia il ruolo importante dell’immunoterapia in combinazione con la chemioembolizzazione, quando il tumore è confinato al fegato e la funzionalità epatica non è compromessa. Alcuni di questi pazienti possono raggiungere livelli di risposta tumorale compatibili con terapie curative come la resezione del tumore o il trapianto”.

I principali fattori di rischio del tumore sono le infezioni da epatite B e l’epatite C, la sindrome metabolica e l’abuso di alcol. “Tutti i pazienti che hanno sviluppato una forma di epatite – conclude l’esperto – devono sottoporsi a controlli epatologici frequenti, per monitorare l’andamento dell’infezione, trattarla e diagnosticare precocemente l’eventuale sviluppo del tumore del fegato”.



www.repubblica.it 2024-01-19 15:06:45

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