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Francesca Buffa, dalla fisica teorica alla ricerca sul cancro. Con l’Intelligenza Art…

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Nell’opera digitale “Renaissance Dreams” (realizzata per il Meet di Milano), l’artista turco Refik Anadol ha dato in pasto a un’intelligenza artificiale migliaia di immagini open-source di opere d’arte e di architettura del Rinascimento italiano, e testi di letteratura tra il 1300 e il 1600: un dataset immenso elaborato e rivisitato in tempo reale da algoritmi che creano, in modo fluido e continuo, nuove figure, colori e suoni originali. “Quando ti immergi in questa opera dinamica, ‘vedi’ l’algoritmo dipingere con pennellate di pixel: all’inizio appare tutto molto confuso, ma alla fine ti restituisce una forma che puoi riconoscere. Nel mio lavoro accade qualcosa di molto simile: si parte da una massa di informazioni incomprensibili per arrivare, pian piano, a delle risposte chiare”. A parlare è Francesca Buffa, fisica teorica esperta di Intelligenza Artificiale (Ai) e con alle spalle una carriera completa all’Università di Oxford. Grazie a un finanziamento europeo ERC, nel 2018 era tornata in Italia per accettare un’offerta dell’Università Bocconi, dove ha avviato con altri colleghi un nuovo dipartimento specializzato in Ai. Ora la sua ricerca prosegue (anche) all’Ifom – Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare, nel suo Laboratorio sperimentale di Intelligenza Artificiale e Biologia dei Sistemi. Per farla facile, Buffa si occupa di usare la Ai per comprendere meglio il comportamento dei tumori. L’abbiamo intervistata in occasione della Giornata internazionale delle ragazze e delle donne nella scienza, che si celebra l’11 febbraio. 

Professoressa Buffa, come è arrivata dalla fisica teorica alla biologia?

“Negli anni Duemila, mentre facevo il dottorato, è stato pubblicato il primo sequenziamento del genoma umano. Per elaborare i dati servivano risorse sia tecnologiche sia di persone che sapessero utilizzarle. Io ero già molto interessata alla biologia e mi sono detta: ‘questo è il mio momento’. Mi sono buttata in questo nuovo campo per capire in che modo le tecnologie potessero darci delle informazioni, e quali. Con la prospettiva che in futuro potessero fare la differenza per alcune malattie”.

 

Una delle sue prime ricerche?

“Abbiamo cominciato a studiare cosa accade alle cellule tumorali quando c’è poco ossigeno, una condizione che si può verificare frequentemente perché i tumori crescono molto in fretta superando la capacità dei vasi sanguigni del tessuto circostante, e formano propri vasi sanguigni che sono spesso anomali con un flusso compromesso, ma anche per esempio quando si somministrano i farmaci anti-angiogenici, che riducono la formazione di nuovi vasi sanguigni per alimentare il cancro. Ci sono infatti casi in cui i tumori, in assenza di ossigeno, rispondono attivando meccanismi di sopravvivenza che li rendono più aggressivi e anche resistenti ai trattamenti. Attraverso algoritmi di machine learning abbiamo analizzato moltissimi dati di laboratorio per arrivare a quella che chiamiamo una ‘firma’: un segnale che ci dice quali tumori stanno attivando una risposta all’ipossia. Oggi questa firma che abbiamo individuato è molto utilizzata nella ricerca clinica”.

Quali sono le possibili ricadute nella pratica clinica di questo tipo di ricerca?

“Sono essenzialmente due: una è stratificare le popolazioni di pazienti, per esempio per stabilire a chi somministrare o meno un certo trattamento: in una parola, personalizzare le cure. Ma questo richiede dei grandissimi studi clinici su migliaia di pazienti e, in generale, occorrono l’interesse e il finanziamento dell’industria. La seconda ricaduta è lo sviluppo di nuovi farmaci basati sulla scoperta di nuovi punti deboli del cancro”.

 

Insomma, l’Ai è indispensabile per la ricerca in oncologia…

“Oggi le scienze omiche (genomica, metabolomica, proteomica, ecc., ndr) e l’imaging producono una quantità abnorme di dati e se vogliamo servircene per districarci dalla complessità abbiamo bisogno di questi tool. Che in alcuni casi non sono ancora neanche sufficienti. Abbiamo una doppia tensione: quella che viene dai dati e quella che viene dallo sviluppo tecnologico. Il prossimo futuro vedrà l’emergere dell’integromica”. 

Cos’è?

“Le scienze omiche e l’imaging ci danno tipi di informazioni diverse su uno stesso processo biologico. Noi vogliamo metterle insieme negli stessi modelli: invece di avere tanti classificatori, stiamo cercando un ‘classificatore olistico’ che tenga conto di tutte le sfaccettature della biologia. Stiamo quindi cercando di mettere a punto strumenti che riescano ad assorbire questa gigantesca complessità per produrre una risposta semplice. Che è quella che vogliamo in medicina”.

L’11 febbraio si celebra la giornata delle donne e delle ragazze nella scienza, come valuta la situazione attuale nel suo campo?

“Forse abbiamo superato il pregiudizio secondo cui le donne non sono portate per le scienze, anche quelle dure. Oggi vedo molte più donne nel mio settore rispetto a quando ho cominciato. Tra i ricercatori junior direi che stiamo raggiungendo la parità, e in prospettiva credo che la raggiungeremo anche tra i senior. Ed è importante anche per l’avanzamento scientifico, perché generi diversi hanno un modo di pensare leggermente diverso. Oggi le ragazze sono molto più incentivate e stimolate a fare questa scelta. E ci sono centri che si sono adeguati per sostenerle. All’Ifom, per esempio, dal 2007 c’è un laboratorio, il Lab G, in cui le donne incinte o in allattamento possono continuare a fare ricerca biomedica in massima sicurezza. Normalmente, infatti, questo tipo di attività è preclusa loro per il potenziale rischio di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici che potrebbero essere pericolosi per il bambino. Questo è un modo molto pratico di aiutare concretamente le donne nella loro carriera scientifica”.



www.repubblica.it 2024-02-10 09:15:08

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