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Farmaci scaduti, l’aspirina funziona ancora dopo dieci anni

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Scade davvero oppure no? E c’è un margine di “tolleranza”? Antibiotico, antinfiammatorio o antispastico. Ma neppure la semplice aspirina sfugge al controllo. Una verifica da fare, giusta e motivata. Che induce chiunque di noi abbia necessità di un farmaco a girare e rigirare tra le mani la scatolina di cartone, fino a identificare l’essenziale avvertimento: “scade il…”. E subito scatta l’allarme, una sbirciatina al calendario e via, basta un solo giorno in più oltre la data limite di utilizzo ed ecco che la bottiglietta dello sciroppo o il blister delle compresse finiscono nel contenitore da portare in farmacia (mai nella spazzatura!) per smaltirli come rifiuti speciali. E con loro un fiume di danaro. Soldi sprecati? Spesso sì. Il nodo da chiarire è tutto lì, sapere se si corre un reale pericolo a mandar giù una compressa “scaduta” oppure si può “sforare” un tantino come accade con le confezioni alimentari laddove riportano quel consolante “…da consumare preferibilmente entro…” che indica una perfetta conservazione entro la data indicata, ma magari dopo quale giorno l’alimento è buono lo stesso, e non è infatti una indicazione tassativa.

Si può sforare quindi o no? Se lo chiedono anche i più scrupolosi pazienti, dopo essersi disfatti, a malincuore, di una confezione semmai quasi piena. Un dubbio sollevato pure dai tecnici che in uno studio Usa della Food and drug administration americana hanno sostenuto, dopo avere esaminato tremila prodotti “scaduti”, che il 95 per cento dei farmaci riporta una expiry date sbagliata (al ribasso), tanto che il 22 per cento dei prodotti sarebbero sommnistrabili fino a 5 anni e mezzo dopo il limite stampigliato sulla confezione. D’altronde, a tagliare la testa al toro ma senza dimenticare che i prodotti farmaceutici non hanno le stesse caratteristiche di durata, c’è l’aspirina (acido acetilsalicilico), il farmaco più utilizzato al mondo che, secondo lo studio, avrebbe validità fino a 10 anni.

Purché siano conservati correttamente

È concepibile, sostengono gli esperti, che sul tema si faccia una seria riflessione. Per più ragioni: evitare sperpero di danaro, limitare l’inquinamento ambientale con prodotti “falsamente” scaduti e rassicurare (con le dovute certezze, testimoniate dalla veridicità dei bugiardini) quei pazienti che pur avendone necessità rinunciano all’unica confezione rimasta perché “scaduta” da pochissimo. La rimodulazione dei termini di durata deve comunque confrontarsi con un altro requisito fondamentale: la corretta conservazione dei farmaci che può incidere sulla loro efficacia nel tempo. E i parametri, quelli di cui parla la stessa Fda, devono rispettare i luoghi di stoccaggio: freschi, senza umidità e distanti da fonti di calore. Esporli a condizioni non ottimali potrebbe tradursi in una perdita del potere terapeutico o, anche, causare il deterioramento del principio attivo.

Troppe pillole in una scatola

Poi, c’è un altro fenomeno da non sottovalutare, la controversa pratica secondo cui le aziende produttrici di farmaci destinano (soprattutto al mercato italiano) confezioni che contengono una quantità di gran lunga maggiore (raramente accade il contrario) rispetto a quella prescritta per una terapia. Col risultato che di un blister, ad esempio di 20 compresse, se ne consuma poco più della metà mentre un terzo finisce nella pattumiera. Uno spreco valutato in circa due miliardi l’anno, sperpero che paesi, come Usa e Inghilterra, sanno limitare al massimo. Come? Grazie a prescrizioni sulle quali i medici indicano la dose programmata per curare una determinata patologia di ogni singolo paziente. Con duplice vantaggio: risparmio per le casse dello Stato e farmaci che si esauriscono una volta assunta la giusta quantità. Discorso a parte quello che riguarda prodotti particolari. Come i colliri, ma non sono i soli, che successivamente all’apertura della confezione, deperiscono rapidamente a causa di una validità, in genere, non superiore ai 28 giorni.

Le regole dell’Iss

Al momento le regole di assunzione e scadenza sono ancora quelle rigidamente riportate dall’Istituto superiore di Sanità. Che avverte: le sostanze contenute nel farmaco potrebbero subire modificazioni tali da diventare potenzialmente tossiche per l’organismo. In più il principio attivo potrebbe diminuire, determinando un’efficacia ridotta o nulla del farmaco stesso. E allora, come se ne esce? Da una parte ci si deve attenere all’obbligo del limite temporale imposto dalle aziende, dall’altra si resta perplessi di fronte all’impietosa analisi dello studio americano. A fugare i dubbi dovrebbero intervenire le istituzioni preposte, fornendo indicazioni, laddove possibile, più precise e non limitate alla mera trascrizione della scadenza. Una sola riga, che a trovarla si fa pure fatica.

 



www.repubblica.it 2024-02-08 08:31:14

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