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Vitamina D, quando è il caso di fare un test per capire se manca

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La vitamina D è considerata un parametro di buona salute, non solo per la mineralizzazione dell’osso e la prevenzione dell’osteoporosi. “Ricerche recenti hanno mostrato la presenza del recettore di vitamina D anche nelle cellule del sistema immunitario, di stomaco, rene, prostata e cervello”, spiega Mario Plebani, presidente della Federazione europea di medicina di laboratorio (Efml). Da qui l’interesse sugli effetti generali della vitamina D sull’organismo da parte dei ricercatori e delle persone, che si chiedono, vista la sua importanza, quando (e dove) è consigliato fare il test per valutarne i livelli. Perché la cosiddetta vitamina del sole, che in realtà è un ormone – non viene assunta attraverso il cibo, ma generata dall’organismo dopo l’esposizione solare – può essere carente in alcune fasce di popolazione.

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Il sole aiuta

Alle latitudini italiane la maggior parte del fabbisogno di vitamina D è garantito dall’irradiazione solare, mentre solo una piccola percentuale proviene dall’alimentazione. Ma nonostante l’Italia sia un paese del Mediterraneo, dove il sole non manca, gli studi epidemiologici mostrano come la carenza di vitamina D sia effettivamente molto frequente, specie negli anziani (soprattutto donne, sopra i 75 anni) e nei mesi invernali. Secondo la Società italiana di medicina generale (Simg), l’aumento dell’incidenza di ipovitaminosi D nella popolazione è in parte dovuto al suo invecchiamento, dal momento che il sistema enzimatico responsabile della sua produzione con il passare degli anni diventa meno efficiente.

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“Il test della vitamina D non è consigliato come screening di popolazione” specifica Plebani. “Negli anni c’è stato un eccessivo interesse per questa vitamina, ma oggi sappiamo che va supplementata senza test solo in precise fasce di popolazione (nel primo anno di vita per evitare il rachitismo, e poi nelle donne in gravidanza e allattamento) e l’esame prescritto a determinate categorie, soprattutto soggetti che faticano ad esporsi alla luce del sole, come i pazienti nelle residenze per anziani”.

 

Le patologie

Conviene Annamaria Colao, professoressa di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Federico II di Napoli: “Una persona giovane o adulta in stato di buona salute con una normale esposizione solare, non ha bisogno di misurare il livello di vitamina D nel sangue. Si può invece valutare una misurazione se insorgono alcuni disturbi o patologie. Ad esempio allergie, malattie autoimmuni, dermatiti, patologie da malassorbimento intestinale (come celiachia o intolleranza al lattosio), diabete oppure ipertensione, dal momento che la carenza di vitamina D può interferire con il corretto funzionamento del sistema immunitario e pare essere un cofattore per l’insorgenza di disturbi metabolici. Non che essa sia la causa diretta, ma può partecipare allo sviluppo di queste malattie. Nelle persone anziane, invece, dopo i 75 anni, andrebbe sempre misurata o comunque prevista un’integrazione perché in questa fascia d’età la carenza è molto diffusa”.

20-30 minuti al sole ogni giorno

Con “normale esposizione solare” gli esperti intendono circa 20-30 minuti quotidiani di sole diretto su viso, braccia, gambe o schiena, nelle ore meno calde, anche se le persone con pelle più scura, scrive l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), potrebbero aver bisogno di un tempo di esposizione più prolungato rispetto a quelle con una carnagione chiara.

Tuttavia, ci sono diverse variabili che possono influenzare questo meccanismo fisiologico, riducendo l’effetto dei raggi solari sulla cute, tra cui la stagione, il cielo nuvoloso o l’inquinamento, mentre non influisce negativamente l’utilizzo di creme solari, come hanno più volte sottolineato gli esperti della Società italiana di dermatologia. “Da maggio a settembre”, sottolinea Colao, “una persona in salute e senza particolari fattori di rischio, dovrebbe essere in grado di ottenere quantità sufficienti di vitamina D dai raggi solari, che le basteranno anche come riserva per l’inverno”.

Quando fare il test

Chi dovesse aver bisogno di testare il livello della vitamina, ha tre possibilità: il laboratorio di analisi (con prescrizione o privatamente), in cui viene fatto un prelievo di sangue; la farmacia, dove è possibile sottoporsi a un test rapido, che preleva sangue capillare mediante una piccola puntura; o l’acquisto di un kit fai-da-te, che funziona sempre con una piccola goccia di sangue. “In questo momento i test in farmacia o fai-da-te non sono consigliabili perché non è stata rilevata una buona affidabilità nel determinare il deficit o meno di vitamina D. Inoltre, si svolgono in assenza di un esperto che può interpretare il dato correttamente” riprende Plebani. “I laboratori invece utilizzano metodi standardizzati, che permettono con accuratezza di rilevare la quantità di vitamina D in modo comparabile tra laboratorio e laboratorio. Il risultato, inoltre, è “actionable”, cioè utilizzabile, nel senso che dà un’informazione che il medico può impiegare per fare una prescrizione. In base al livello di vitamina D, lo specialista può suggerire di esporsi maggiormente al sole nelle prime ore del mattino, oppure di prendere un integratore in un certo dosaggio”.

Non tutte le società scientifiche concordano su quale sia il livello di vitamina D da considerarsi insufficiente. “In Italia”, continua il presidente della Federazione europea di medicina di laboratorio, “consideriamo deficit una vitamina D inferiore a 20 nanogrammi per millilitro (ng/ml), e sono in corso iniziative per armonizzare la determinazione e refertazione dell’esame nei laboratori clinici”. Tuttavia, torna a spiegare Colao, “queste soglie sono state stabilite sulla base di studi specifici per la prevenzione dell’osteoporosi, che è sicuramente uno dei tanti obiettivi della vitamina D, ma non l’unico. Perciò secondo alcuni studi per la prevenzione oncologica, il livello di vitamina D da mantenere nel sangue potrebbe essere più alto, intorno ai 50 ng/ml”.

In caso di carenza, è bene rivolgersi al proprio medico, che suggerirà l’integratore più adatto da utilizzare, i dosaggi e la modalità di assunzione, che può essere giornaliera, settimanale o mensile in base alla formulazione scelta (esistono integratori in capsula, film sublinguali, oli). “In Italia” continua l’endocrinologa “esiste la nota 96 dell’Aifa che permette al Sistema sanitario nazionale di rimborsare la terapia con vitamina D solo se si ha un livello inferiore a 12 ng/ml, a meno che non ci sia un’altra malattia associata”.

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Per livelli più alti, ma comunque più bassi di 20 ng/ml, viene infatti previsto il rimborso solo in presenza di iperparatiroidismo o malattie che possono causare malassorbimento; mentre quando è inferiore ai 30 ng/ml in presenza di osteoporosi oppure osteopatia. Di fronte a una carenza lieve potrebbe essere sufficiente una semplice modifica dello stile di vita, quindi una maggiore permanenza all’aria aperta ed esposizione ai raggi solari. Poco aiuto, invece, arriva dalla dieta. “Alle latitudini italiane circa l’80% del fabbisogno di vitamina D è garantito dall’irradiazione solare, mentre solo il 20% può essere assicurato dall’alimentazione perché nei cibi se ne trova poca”, conclude Colao. “Pesci grassi come il salmone e l’olio di fegato di merluzzo, di cui il sapore raramente piace, sono considerati i cibi a maggior contenuto”.

 

 

 

 



www.repubblica.it 2024-02-16 03:42:02

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