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Tumori del fegato, via libera all’immunoterapia per le due forme più frequenti

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L’immunoterapia cambia il trattamento della fase avanzata dei due tumori del fegato più frequenti. Parliamo del carcinoma epatocellulare e del colangiocarcinoma (che deriva dalle cellule delle vie biliari, i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino), per i quali l’Agenzia italiana del farmaco ha da poco approvato l’utilizzo di durvalumab fin dalla prima linea di trattamento. 

Nello specifico, il carcinoma epatocellulare avanzato o non resecabile potrà essere trattato con una singola dose iniziale di tremelimumab seguita da durvalumab in monoterapia; il colangiocarcinoma non resecabile o metastatico, invece, potrà essere trattato con durvalumab in combinazione con la chemioterapia (gemcitabina più cisplatino). 

A dimostrare il beneficio del farmaco immunoterapico sono stati, rispettivamente, gli studi di Fase III HIMALAYA (pubblicato su Annals of Oncology) e TOPAZ-1 (pubblicato sul New England Journal of Medicine Evidence). Nel primo, un quarto dei pazienti con epatocarcinoma trattati con durvalumab più tremelimumab era vivo a 4 anni rispetto al 15% di quelli trattati con sorafenib (standard di cura al momento dell’avvio dello studio) e il rischio di morte è stato ridotto del 22%. Nel secondo, durvalumab più chemioterapia ha ridotto del 24% il rischio di morte rispetto alla sola chemioterapia nei pazienti con colangiocarcinoma, con una stima di pazienti ancora in vita a due anni dall’inizio del trattamento più che raddoppiata (23,6% rispetto a 11,5%). 

 

Nel 2023, in Italia, sono state stimate 12.200 nuove diagnosi di tumore del fegato, di cui il 79% è rappresentato dall’epatocarcinoma. “Sia nel mondo che in Italia è una delle principali cause di morte per tumore, particolarmente negli uomini tra i 60 e 70 anni. Nella larga maggioranza di casi, il tumore si sviluppa in pazienti affetti da una malattia cronica del fegato, spesso già allo stadio di cirrosi, legata soprattutto a infezioni da virus dell’epatite B e C, abuso di alcol, malattie genetiche e autoimmunitarie, ma anche alla sindrome metabolica. Sia la cirrosi che il cancro del fegato spesso insorgono silenziosamente: “Solo l’identificazione delle persone a rischio, cioè con epatopatia cronica avanzata che ancora non presenta alcun sintomo, e la loro attenta sorveglianza con ecografia semestrale consentono una diagnosi precoce della neoplasia, cioè in una fase iniziale in cui è possibile intervenire con terapie radicali, come chirurgia, trapianto o ablazione percutanea – spiega Fabio Piscaglia, Ordinario di Medicina Interna all’Università di Bologna e Direttore della Medicina Interna, Malattie epatobiliari e Immunoallergologiche dell’IRCCS-AOU di Bologna -. Purtroppo, per motivi vari, più della metà dei pazienti non riceve questa sorveglianza e, quando la malattia si manifesta, è già in stadio avanzato. La miglior gestione dell’epatocarcinoma richiede il contributo di diversi specialisti e una vera e propria alleanza terapeutica fra il paziente e i clinici”.

Una spinta al sistema immunitario

 

Proprio perché bisogna curare il tumore senza sottovalutare la malattia epatica sottostante, il trattamento è complesso: “La gestione di due gravi patologie concomitanti richiede terapie efficaci e tollerabili, che non peggiorino la funzionalità epatica residua – sottolinea Mario Scartozzi, Ordinario di Oncologia Medica dell’Università di Cagliari – AIFA ha approvato la rimborsabilità del nuovo regime STRIDE (Single Tremelimumab Regular Interval Durvalumab, ndr.), basato su due farmaci immunoterapici, durvalumab più tremelimumab, che ha evidenziato un significativo incremento della sopravvivenza. Un paziente su quattro trattato con il regime STRIDE è vivo a quattro anni. Nessun altro regime terapeutico ha dimostrato finora questi risultati. Anche il tasso di risposta è risultato superiore con durvalumab più tremelimumab”. STRIDE è basato su un innovativo approccio di ‘priming immunitario’ con una singola dose di tremelimumab seguita da durvalumab in monoterapia. “Quest’unica somministrazione di tremelimumab, a un dosaggio superiore rispetto a quello tradizionale, è in grado di fornire una ‘spinta’ alla risposta immunitaria. Inoltre, la qualità di vita è stata salvaguardata, con un buon profilo di tollerabilità, molto importante nei pazienti con questo tipo di neoplasia, che tendono ad essere più fragili e caratterizzati da diverse comorbilità”, specifica l’esperto.

Aumentano, quindi, le terapie a disposizione dei clinici, permettendo così ad un maggior numero di pazienti, ad esempio anche a coloro che presentano controindicazioni ai farmaci antiangiogenetici, di ricevere terapie farmacologiche benefiche e di utilizzare un approccio innovativo. “L’auspicio – riprende Piscaglia – è di poter dare la speranza ai pazienti di ottenere un controllo del tumore a lungo termine. Con le nuove terapie si stanno inoltre aprendo importanti prospettive grazie alla combinazione della terapia farmacologica con i trattamenti già previsti per i vari stadi di malattia”.

“Per i pazienti con malattia avanzata, non candidabili alla chirurgia e alle terapie locoregionali, è fondamentale avere accesso a strumenti efficaci come l’immunoterapia – afferma Massimiliano Conforti, vice presidente EpaC -. È importante sensibilizzare anche i medici di famiglia, per attivare programmi di sorveglianza nei confronti delle persone a rischio con malattia di fegato avanzata, ma anche informare i pazienti con tumore del fegato sulle strutture di riferimento, che garantiscono una presa in carico a 360 gradi. Diagnosi precoce e percorsi di cura rapidi, all’interno di Reti epatologiche regionali, sono la chiave per guadagnare anni di vita, oltre all’innovazione costituita da terapie sempre più efficaci”.

Il tumore delle vie biliari

 

Una patologia rara, ma in costante crescita. È il tumore delle vie biliari, che fa registrare ogni anno circa 5.400 nuovi casi in Italia, il 70% dei quali arriva alla diagnosi già in fase avanzata. Per questi pazienti il trattamento di prima scelta fino a oggi è stato rappresentato dalla chemioterapia, che contribuisce a controllare l’evoluzione del tumore, anche se con un’efficacia limitata. “Lo studio TOPAZ-1 – afferma Lorenza Rimassa, Professore Associato di Oncologia Medica all’Humanitas University e IRCCS Humanitas Research Hospital di Rozzano, Milano – ha coinvolto 685 pazienti e ha dimostrato che durvalumab in combinazione con la chemioterapia è in grado di migliorare la sopravvivenza nel trattamento di prima linea. La combinazione ha evidenziato anche una riduzione del rischio di progressione e un miglior tasso di risposte, senza alterare la qualità di vita rispetto alla sola chemioterapia. Dopo oltre un decennio di attesa di nuove opzioni terapeutiche, questo regime a base di immunoterapia cambia lo standard di cura in prima linea”.

“L’approvazione della rimborsabilità di durvalumab da parte di AIFA per il trattamento dei tumori delle vie biliari è una notizia molto importante – afferma Paolo Leonardi, Presidente Associazione Pazienti Italiani Colangiocarcinoma (APIC) –, perché allunga la vita, controllando lo sviluppo del tumore. Un secondo passo importante dopo i primi farmaci a bersaglio, che speriamo siano anch’essi resi tutti disponibili alle persone con diagnosi di colangiocarcinoma. Questi trattamenti spero si diffondano anche se resta importante, nell’impostazione della terapia, ricorrere a strutture specializzate, dove è possibile una presa in carico completa da parte di un team multidisciplinare dedicato. Le cure simultanee fanno la differenza per questi pazienti, come tenere conto anche dell’aspetto psicologico, nutrizionale, della terapia del dolore e della riabilitazione”.

Il tumore dello stomaco

 

L’immunoterapia sta evidenziando risultati importanti anche nel tumore dello stomaco. “Nello studio MATTERHORN, nel tumore gastrico o della giunzione gastro-esofagea operabile – continua il Scartozzi -, l’aggiunta di durvalumab al regime chemioterapico FLOT, prima e dopo la chirurgia, ha evidenziato un aumento significativo del tasso di risposta patologica rispetto a solo FLOT: 19% contro 7%, con una differenza fra i due trattamenti del 12%. È particolarmente incoraggiante osservare la sicurezza della combinazione di durvalumab più chemioterapia, che non ha compromesso la possibilità di sottoporsi alla chirurgia. I risultati di questo studio erano molto attesi, perché nei pazienti con tumori gastrici o della giunzione gastro-esofagea sottoposti a resezione chirurgica dopo il trattamento con chemioterapia attualmente il tasso di recidiva è ancora del 50%”.



www.repubblica.it 2024-03-12 11:27:51

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