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Aviaria, l’allarme degli scienziati Usa su Nature: “Non stiamo facendo abbastanza”

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“Non stiamo facendo abbastanza”. Così su Nature, Isabella Eckerle, a capo del Geneva Centre for Emerging Viral Diseases, in Svizzera, esprime la preoccupazione di una parte della comunità scientifica sulla gestione dei focolai di influenza aviaria nelle mucche in Usa.

Troppa lentezza nella raccolta dei dati da parte delle autorità

La preoccupazione dei ricercatori amricani riguarda soprattutto la quantità e tempestività della raccolta dei dati da parte delle autorità e la trasparenza con cui vengono diffusi ai cittadini e alla comunità scientifica. Per gli scienziati interpellati dalla rivista britannica, fin dall’inizio la gestione dell’epidemia ha mostrato delle falle.

Il virus, si legge nell’articolo, circola nelle mucche da novembre, ma solo a marzo sono stati colti i primi segnali. Ciò fa pensare che il sistema di sorveglianza non sia sufficientemente sensibile da coglier tempestivamente i segnali di allarme. Poi, le prime sequenze virali sono state poi diffuse con grave ritardo. Inoltre, proseguono gli scienziati, anche i dati genetici attuali mancano di dettagli importanti, come i luogo e la data in cui sono stati raccolti i campioni analizzati: ciò non consente alla comunità dei ricercatori di comprendere come si sta muovendo l’epidemia. Dettagli che fanno temere che ci siano più casi di quanti finora certificati, non solo nelle mucche ma anche nell’uomo.

Tardive anche le misure economiche

Oltre alle misure sanitarie, potrebbero essere state tardive anche le misure economiche. Una settimana fa il dipartimento dell’Agricoltura ha annunciato un piano di incentivi per compensare gli agricoltori i cui allevamenti sono colpiti da aviaria e quelli che decidono di collaborare agli studi. Troppo tardi per gli esperti. Temendo ricadute economiche molti allevatori potrebbero non aver segnalato le infezioni e ciò potrebbe aver consentito al virus di diffondersi sotto traccia.

Le autorità americane hanno deciso uno stanziamento di circa 200 milioni di dollari per tentare di bloccare la diffusione dell’influenza aviaria in particolare negli allevamenti di bestiame da latticini. Parte del denaro andrà direttamente ai lavoratori del settore per coprire i costi dei veterinari ed incoraggiarli a sottoporre le mucche ai test sulla presenza del virus H5N1. Un’ altra fetta degli stanziamenti dovrebbe andare a compensare parte delle perdite economiche degli allevatori che non hanno potuto vendere il latte. Al momento non è obbligatorio testare il bestiame per l’aviaria, a meno che le mucche non debbano passare dei confini, ossia venire spostate in un altro stato Usa.

Gli  allevamenti in cui sono stati sinora ufficialmente scoperte mucche contaminate sono 42 in 9 stati dell’unione: Colorado, Idaho, Kansas, Michigan, New Mexico, North Carolina, South Dakota, Ohio, Texas. Intanto un nuovo studio condotto negli Stati Uniti e in Danimarca – in corso di pubblicazione – ha scoperto che le mucche hanno un recettore per l’influenza uguale a quello degli esseri umani e di alcuni uccelli: questo fa temere agli scienziati che le mucche contagiate fungano da sorta di ‘provetta’ da laboratorio in cui il virus H1N5 impara a mutare in modo da riuscire a fare il salto di specie, in modo da contagiare le persone.

Il virus trovato in alcuni uccelli selvatici a New York

Nei giorni scorsi un piccolo numero di uccelli selvatici – sei in tutto per ora – sono risultati portatori del virus H5N1. Un segnale che l’aviaria non è limitata alle zone rurali. Ad allarmare è il fatto che i volatili – di cui alcuni sono uccelli migratori – appartengono a 4 diverse specie e ciò aumenta la possibilità di diffusione della malattia ad altre razze animali.
Inoltre, i campioni fecali su cui è stato individuato il virus, sono stati raccolti proprio nei parchi e nelle aree verdi e aperte al pubblico di New York. A renderlo noto è uno studio pubblicato sul ‘Journal of Virology’ dalla Società di microbiologia americana e condotto dalla scuola di medicina del Mount Sinai hospital e dal programma dei ‘cacciatori di virus di New York’ (‘New York City Virus Hunters’ (Nycvh).

Christine Marizze, prima ricercatrice dello studio, ha precisato: “A mia conoscenza il nostro è il primo ampio studio sulla presenza dell’influenza aviaria negli uccelli in aree urbane ed il primo con il coinvolgimento della comunità”. I ricercatori invitano la popolazione a tenere gli animali di famiglia, cani e gatti, lontani da uccelli e le loro feci nei parchi per evitare il possibile contagio. L’indagine è stata realizzata in una innovativa partnership con le scuole di New York, per cui gruppi di studenti – con indosso tute, guanti e maschere protettive – hanno raccolto campioni fecali di uccelli nei parchi urbani sino a dicembre 2023. Marizze ha messo in guardia da eccessivi allarmismi, osservando che “si sapeva che il virus H5N1 era in giro per New York da un paio di anni e nonostante ciò non è stato riportato alcun caso nell’uomo”. Tuttavia, ha aggiunto, “è necessario continuare a tenere gli occhi aperti e coinvolgere la gente”.

Il virus anche nelle acque reflue di nove città del Texas

Uno studio di Baylor College of Medicine, University of Texas Science Center e Texas Epidemic Public Health lo ha individuato in nove delle dieci città esaminate fra il 4 marzo e il 25 aprile. “È molto probabile che la presenza dei virus sia legata agli allevamenti di bovini”, dove l’aviaria ha cominciato a circolare circa 4 mesi fa, spiega Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica molecolare e di Epidemiologia del Campus Bio-Medico di Roma, mentre “non è escluso che sia stata causata anche dall’uomo, perchè chi lavora nell’allevamento e nella macellazione, senza accortezze si può ammalare”. A circa un mese e mezzo dal primo caso umano negli Stati Uniti e a pochi giorni dall’invito della Fda, l’agenzia americana dei farmaci, a essere pronti con farmaci antivirali, vaccini ed una serie di contromisure che prevengano la diffusione del virus dal bestiame alle persone, pur in presenza di un “rischio basso di contagi all’uomo”, arriva quindi una nuova notizia che conferma l’allerta. Animali contagiati sono stati trovati in 9 stati dell’unione: Colorado, Idaho, Kansas, Michigan, New Mexico, North Carolina, South Dakota, Ohio, Texas.

Le acque reflue, prosegue Ciccozzi, sono un buon indicatore della presenza dell’aviaria ma “solo se le analisi vengono fatte da personale molto preparato, come quelli in Italia dell’Istituto Superiore della Sanità e degli Istituti Zooprofilattici, che possano ricostruire il materiale genetico, presente in questo materiale organico solo in piccoli pezzi”. Le parole chiave per evitare questa trasmissione sono sorveglianza e prevenzione. “Se dal punto di vista della sorveglianza si monitorano anche i passaggi di specie, ad oggi ne sono stati documentati più di 230 dalle mucche, ai polli, ai gatti, per quanto riguarda la prevenzione, invece importante è separare l’animale ammalato (che viene eliminato) dagli altri, che vanno messi in isolamento. La prassi è quella di eliminare tutti gli animali che dopo la quarantena abbiano i sintomi dell’aviaria”.

Rezza e Ciccozzi: allarmismo fuori luogo

“Difficile dire cosa succederà – commenta Gianni Rezza, docente straordinario di Igiene all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano -. Ed è difficile dire se questo virus si adatterà all’uomo tanto da diventare trasmissibile da persona a persona. Si può escludere? No. Succederà sicuramente? Non lo sappiamo. Al momento è una situazione in cui ogni allarmismo è fuori luogo, anche perché adesso non possiamo fare nulla se non osservare, monitorare, testare e prepararsi”, conclude.

Dello stesso avviso Massimo Ciccozzi: “Gli americani sull’aviaria ci stanno spaventando, ma non è una nuova emergenza. In italia poi non lo è perché non abbiamo casi. Stiamo tranquilli, però abbiamo imparato una cosa molto importante, cioè a fare prevenzione e a sorvegliare attentamente: questo sì che è utile, non creare terrorismo”.

“Il problema dell’aviaria sono gli allevamenti intensivi di bestiame che hanno gli Stati Uniti – prosegue Ciccozzi – che permettono al virus di passare da una mucca all’altra e di fare mutazioni. Chi ci dice che tra 10, 20, 30 o 50 anni quella mutazione provocherà uno spillover, cioè il passaggio all’uomo? Ma attenzione: spillover, non infezione dell’uomo perché ha contratto il virus dalla mucca in quanto non aveva la mascherina, i guanti o tutte quelle protezioni che avrebbe dovuto avere nel caso di contatto con una mucca infetta da aviaria. In quel caso potrebbe essere un problema – conclude l’epidemiologo – ma per ora non gridiamo al ‘lupo al lupo’”.



www.repubblica.it 2024-05-17 14:06:27

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