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Oncologia integrata, sempre più basata sull’evidenza scientifica

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“LA PRIMA domanda da porre ai pazienti oncologici nel corso della prima visita è questa: ‘quali sono le sue priorità e cosa è importante lei?’”. A parlare è Deng Gary, direttore medico del dipartimento di Medicina Integrativa del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, che solo pochi giorni fa era a Roma per il X Congresso Internazionale dell’Associazione per la ricerca di terapie oncologiche integrate (Artoi): un evento che ha visto la partecipazione di 12 paesi, riuniti con l’obiettivo di stilare delle linee guida condivise sui migliori trattamenti complementari e su quando e come impiegarli al fine di potenziare l’efficacia delle terapie standard e mitigarne gli effetti collaterali, basandosi sulle evidenze scientifiche più solide. “Certamente bisogna ridurre la massa tumorale – spiega Gary dalla tavola rotonda di consenso – ma considerando la salute da una prospettiva più alta possiamo partire non soltanto da quello che noi medici riteniamo più utile, ma da quello che il paziente ritiene più utile. Solo così la cura può essere centrata sul paziente e possiamo utilizzare al meglio la nostra esperienza”.

I risultati dell’oncologia integrata nel glioblastoma e nel tumore del polmone

Questa è la premessa. infatti, quando si parla di oncologia integrata. Che sta conquistando uno spazio sempre più grande nel mondo dell’oncologia “classica” anche in Italia. Come dimostrano le ricerche presentate al congresso: “Stiamo conducendo due studi su oltre 70 pazienti con glioblastoma e su quasi 60 pazienti con tumore del polmone, seguiti per 5 e 3 anni, rispettivamente”, spiega Massimo Bonucci, presidente di Artoi: “Tutti hanno ricevuto un trattamento integrato: le terapie classiche, come chemio e radioterapia, sono state affiancate da trattamenti quali l’agopuntura, l’ipertermia, la supplementazione di sostanze naturali che sappiamo di poter associare in sicurezza ai farmaci antiblastici. Bisogna stare attenti a non banalizzare: parliamo di sostanze di cui conosciamo bene i pro e i contro e le eventuali interferenze positive e negative, a seconda dei farmaci assunti. Inoltre, abbiamo utilizzato la nutrizione come supporto. In queste due casistiche – non randomizzate, ma controllate – abbiamo osservato un miglioramento sia della qualità di vita sia della sopravvivenza rispetto ai dati riportati in letteratura. Ci sono ormai molti studi simili a livello internazionale, e il documento di consensus emerso dal confronto tra i diversi specialisti sarà un punto di partenza per costruire la cultura dell’oncologia integrata, non solo in Italia”.

La sfida dei prossimi anni

Per trattamento integrato non si intende l’impiego di questa o di quella singola sostanza, ma – appunto – la sinergia di più strategie complementari. Questo approccio da noi è ancora poco praticato, ma lentamente qualcosa sta cambiando. Non è un caso, infatti, che all’interno del Dipartimento di Medicina e Psicologia dell’Università Sapienza di Roma stia per partire il primo master in oncologia integrata, in collaborazione con Artoi. “Il campo è estremamente vasto”, ha detto Paolo Marchetti, ordinario di Oncologia medica presso l’ateneo capitolino, Direttore Scientifico dell’IDI-Irccs di Roma e presidente della Fondazione per la Medicina Personalizzata, che ha tenuto la lecture di apertura del congresso: “Si va dall’agopuntura alle supplementazioni di qualsiasi tipo e questo può creare molta confusione in un certo mondo accademico e clinico. Ma l’obiettivo è chiaro: il controllo dei sintomi e, più in generale, il ripristino delle condizioni di benessere del malato oncologico. Che questo avvenga con un farmaco di una multinazionale o attraverso il miglioramento dell’attività fisica o con un infuso non importa, quello che conta è che sia sostenuto da evidenze scientifiche. Alcuni approcci hanno già fortissime evidenze, per altri sono deboli e necessitano di ulteriori studi, per altri ancora sono totalmente assenti. Alcune iniziative, inoltre, non possono essere sostenute da evidenze perché sono legate all’intuito del medico”. Bisogna avere una visione chiara di tutto questo.

Nell’agopuntura, per esempio, è semplice standardizzare gli interventi e condurre studi con gruppi di controllo, quando invece si somministra un pacchetto “dinamico” e personalizzato di interventi è difficile andare a stabilire cosa ha prodotto un effetto. Lo sforzo per i prossimi 10 anni, secondo Gary, sarà quello di definire sempre meglio trattamenti riproducibili. Ecco perché serve un consenso condiviso e una formazione. Negli Usa già nel 2014 una parte del congresso americano di oncologia clinica riguardava le terapie integrate, a dimostrare come fosse entrata a pieno titolo all’interno della scienza medica.

Far comunicare i due mondi

La collaborazione tra Sapienza e Artoi non si limiterà al corso accademico, ma si estenderà anche al percorso di cura dei pazienti, attraverso confronti quotidiani con gli specialisti di oncologia integrata. Ma in che modo i due mondi – a volte apparentemente distanti – possono collaborare nella pratica clinica? “Al Memorial Sloan Kettering – spiega Deng Gary – quando prendiamo in carico un paziente, in genere scriviamo una mail ai colleghi oncologi: spieghiamo loro come siamo intervenuti e forniamo i link a studi pubblicati e indicizzati su Pubmed per dare un riferimento rispetto al nostro approccio. Questo, nel tempo, crea fiducia e facilita il nostro lavoro. I pazienti che si sentono meglio e risolvono i loro problemi, però, restano l’evidenza più forte”.

Lo studio delle interferenze e la medicina di precisione

Dal punto di vista della ricerca, un approccio integrato potrebbe fornire informazioni utili anche per l’oncologia di precisione. Per esempio: prendiamo 10 pazienti, tutti con lo stesso tipo di tumore, tutti con la stessa mutazione, tutti in qualche modo “simili”. E tutti, ovviamente diversi: in alcuni la terapia si rivela molto efficace, in altri un po’ meno, in altri per niente. Certi hanno l’effetto collaterale “x”, altri l’effetto “y”, e c’è magari chi, pur avendo una regressione di malattia, è costretto a interrompere i farmaci perché l’effetto indesiderato ha un impatto troppo grande sulla qualità di vita. I dati mostrano un quadro confuso, apparentemente senza logica, che la genomica riesce a spiegare solo in parte. Perché è tanto difficile comprendere queste enormi differenze? Uno dei motivi è che possono essere il risultato di interferenze sconosciute o che non vengono prese in considerazione. Interferenze, per esempio, con sostanze che si trovano nella casa in cui viviamo, con il cibo, con l’inquinamento, con i comportamenti.

Per capire il mondo delle interferenze – quello che Marchetti ed altri ricercatori chiamano esposoma – bisogna concentrarsi sui fallimenti. Chiedersi, per esempio, perché il genere femminile (e non solo il sesso femminile) non risponde all’immunoterapia come quello maschile, o perché lo stesso avvenga in chi è stato tratttato a lungo con antibiotici. E quando un gruppo di pazienti risponde in modo diverso a uno stesso trattamento, bisogna pensare che probabilmente non stiamo osservando realmente un insieme omogeneo e chiedersi quali siano le differenze in comune. Il messaggio – davvero condiviso – che si porta a casa dalle 12 nazioni presenti al congresso indica un cambio di prospettiva: considerare il paziente non più al centro, ma come partner.



www.repubblica.it 2021-11-18 16:52:44

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