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Mieloma, storia di Marco: “Vi racconto perché sono nato dopo mio figlio”

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Può un numero esprimere felicità? Per Marco Dell’Acqua, ex paziente di mieloma, è possibile. Per lui i 3.770 grammi rappresentano il peso esatto della felicità perché sono la prima pesata di suo figlio Lorenzo che, senza dire una parola, gli aveva già spiegato tutto sulla vita e rendeva possibile parlare di un ‘dopo’ il tumore. Sensazioni, racconti, emozioni che troviamo nel libro “Sono nato dopo mio figlio” (Laurana Editore) in cui Marco condivide il suo percorso con un tumore del sangue, il mieloma, la sua vittoria e le sue rinascite, la più importante delle quali dopo due autotrapianti e un trapianto da donatore di midollo osseo.

La storia clinica di Marco

Di Marco avevamo già raccontato quattro anni fa su Oncoline con un articolo che affrontava il tema della ‘grammatica’ del cancro. Quando aveva 38 anni si è ammalato di mieloma allo stadio III B: il più grave. Il mieloma è una neoplasia per la quale, sino a qualche anno fa, le percentuali di sopravvivenza erano bassissime. Poi sono arrivate delle cure innovative e, da quel momento, le cose sono cambiate. “Io ho avuto accesso a quelle terapie e oggi, grazie a un’equipe strepitosa e alla mia donatrice di midollo osseo che non conosco, sono vivo. Sono trascorsi quindici anni e il trapianto di midollo da donatore, contrariamente a quanto è accaduto a me, non è più l’unica opzione terapeutica”, scrive Marco nel libro. Oggi la malattia è in regressione completa.

Emozioni forti e una luce calda

Suo figlio Lorenzo è nato mentre si sottoponeva alla chemioterapia: “Per me è stato un dono enorme soprattutto perché ci avevano detto che la chemioterapia mi avrebbe reso sterile e perciò prima di sottopormi alla cura mia moglie ed io abbiamo provato a concepire e ci è andata bene”, racconta Marco che nel libro rivive tutte le emozioni del giorno in cui è diventato papà: “La fatica era spazzata via, il cuore era più leggero e un alone di luce calda mi avvolgeva. ??La speranza era venuta a cercarmi e mi aveva trovato”, scrive nel libro. Perché questo titolo? “Perché proprio mentre mi sottoponevo alle cure più pesanti, è nato mio figlio, e così posso dire di essere venuto al mondo dopo di lui”.

La seconda nascita di Marco

Proprio mentre le emozioni della paternità si imponevano con prepotenza, arrivò per Marco anche il momento del trapianto di midollo osseo da donatore non consanguineo, trovato nel registro mondiale dei donatori. “Avevo capito che il donatore era una donna con figli, perché mi avevano somministrato dei farmaci specifici per proteggermi da eventuali anomalie derivanti dalle gravidanze”, racconta Marco.  “La donatrice mi aveva insegnato molto facendomi capire che donare, cioé dare senza avere nulla in cambio, é fantastico; soprattutto se sai che così potrai salvare una vita”. Nel caso di trapianto allogenico, le cellule non possono essere conservate e vanno re-infuse fresche, cioè nel minor tempo possibile dalla loro raccolta. “Perciò – scrive Marco nel suo libro – il 18 aprile 2006 venni al mondo per la seconda volta e quindi, sono nato dopo mio figlio, che in quei giorni aveva da poco compiuto sei mesi”.

L’isolamento necessario

Le ‘nuove’ cellule stavano cambiando il sistema immunitario di Marco responsabile di aver fatto ‘passare la malattia’. Per capire se l’attecchimento procedesse bene ci voleva qualche giorno: i valori di globuli bianchi e rossi e quelli delle piastrine dovevano risalire. “In quel momento – ricorda – i rischi erano alti e anche un banale starnuto avrebbe potuto uccidermi. I contatti con il resto del mondo erano sospesi”. Per favorire l’attecchimento ed evitare le conseguenze della GVHD (graft versus host disease) – o malattia dell’ospite, e cioé un attacco da parte del sistema immunitario del donatore a quello del ricevente e ai suoi organi –, cominciarono a somministrargli gli immunosoppressori in dosi massicce. Il nuovo midollo doveva gradualmente sostituire quello vecchio senza stressare gli organi interni. “Nessuno poteva varcare la soglia della mia stanza e il cibo me lo lasciavano appena fuori, come in carcere. Dovevo segnare quanta acqua bevevo e la pipì dovevo farla in un bidoncino graduato e poi trascrivere la quantità. Stavo male: il paradosso, ancora una volta, era stare male non per la malattia bensì per la cura, ma ero preparato”.

Il ritorno a casa a distanza di sicurezza

E poi finalmente – dopo 22 giorni di ricovero – arriva il momento delle dimissioni. “Ritornare nel mio ambiente con il nuovo midollo – scrive Marco nel libro – fu come portare a casa un altro neonato solo poche settimane dopo Lorenzo. Le giornate trascorrevano in un ozio surreale e forzato: osservavo mio figlio e crescevo con lui”. Purtroppo, per motivi di sicurezza, Marco (essendo immunodepresso) doveva seguire una serie di regole tra cui il divieto di baciare persino la moglie e il figlio. Anni dopo, con l’epidemia di Covid-19 in corso, questi comportamenti sarebbero diventati familiari a tutti. “Con Lorenzo sono tornato a vivere e, contemporaneamente, a comprendere il vero senso delle cose. Vederlo crescere non è come assistere a un film che ti parla della vita, è sentire, vedere, toccare la vita stessa”, aggiunge Marco che conclude: “Mi piacerebbe far passare il concetto che bisogna lottare sempre. Come dice Loredana Bertè: la guerra (contro la malattia, aggiungo io) non è mai finita. Ci sarà sempre qualcuno che soffre e che ha bisogno, insieme alle terapie, anche delle parole giuste, ma la malattia mi ha insegnato a ridefinire le scale di valore e a cercare di non aver rimpianti”.
 



www.repubblica.it 2021-12-01 09:11:53

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