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Tumori: abbiamo davvero tutti a disposizione le terapie migliori?

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La domanda potra anche essere brutale. Ma è oggi quanto mai urgente. Nell’era della medicina di precisione, della potente prospettiva di curare i tumori colpendoli alla radice, in maniera precisa appunto, quasi facendoci pensare alle terapie come a bisturi molecolari che se la vedono coi geni responsabili della nostra, proprio della nostra, mutazione killer, e non più con il lanciafiamme della chemioterapia, sembra sempre più aprirsi il varco tra i malati che vi hanno accesso e quelli che, invece, no.

Ed è tanto urgente che l’Asco (l’American Society of Clinical Oncology), la più grande e potente armata contro i tumori del mondo, nel chiamare di nuovo a raccolta in presenza – a Chicago dal 3 al 7 giugno – la comunità oncologica internazionale punta l’obbiettivo proprio su quello, con un titolo inequivocabile dato all’assise 2022: Advancing Equitable Cancer Care Through Innovation. Presentando una serie di ricerche che dimostrano proprio come una fetta enorme della popolazione non ha a disposizione le migliori e più aggiornate cure, quelle che rendono così scintillante ed eccitante l’oncologia oggi. E chiedendosi come e quanto le tecnologie più avanzate possano aiutare in questa impresa.

Con un mandato preciso del presidente Joe Biden: dimezzare la mortalità per cancro nei prossimi 25 anni. E i soldi per farlo non mancheranno, ha promesso Biden rilanciando la Moonshot Inititive, che lui stesso aveva lanciato proprio all’Asco nel 2016, prima dei due flagelli, Trump e il Covid.

E in Italia? Noi abbiamo a disposizione un servizio sanitario universale per adempiere al mandato della Costituzione che  “garantisce cure gratuite agli indigenti”. E che lo fa. Ma di fronte all’impennata delle tecnologie genetiche, corre obbligo di chiederci: cure sì, ma quali? Partiamo dall’inizio.

Cosa serve agli ospedali

Come i lettori di Salute sanno, grazie al nostro canale Oncoline, negli ultimi anni sono arrivati in ospedale almeno una ventina di nuovi farmaci che si chiamano “a bersaglio molecolare” perché sono diretti proprio e soltanto contro una mutazione specifica e colpevole di uno specifico tumore. Sono potentissimi, e costosissimi. Ma senza quel bersaglio molecolare sono quasi inutili. Dunque, la forza di questa nuova oncologia si gioca proprio tutta su due termini: “biomarctori” e “appropriatezza della cura”. Ovvero: la possibiltà di sapere se il nostro tumore ha una caratterizzazione genetica aggredibile (quindi la disponibilità dei test che lo accertino); e la capacità di usare i farmaci disponibili (quindi la buona lettura dei risultati dei test e il disegno di una terapia di concerto). Tutti gli ospedali italiani sono capaci di farlo?

Risponde Franco Perrone,  direttore della struttura complessa Sperimentazioni cliniche dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli e presidente eletto Aiom: “In molti casi, le tecnologie necessarie sono relativamente semplici. In altri sono più complesse e richiedono test genomici capaci di esplorare un elevato numero di alterazioni, eseguiti solo in pochi centri, i quali spesso fungono da supporto per molti centri di cura. L’interpretazione dei test genomici richiede anche una competenza multiprofessionale che si sta cercando di formalizzare nei cosiddetti Molecular Tumor Board che hanno proprio l’obiettivo di integrare tecnologie e competenze per favorire i percorsi e le scelte migliori per i pazienti”.

Le differenze da regione a regione

I cosiddetti Molecular Tumor Board sono la rotella chiave di questa partita, perché si tratta di team multiscipnari che mettono insieme le competenze cliniche e genetiche necessarie alla oncologia di precisione. Ma, stando a un’indagine di Cittadinanzattiva, solo otto regioni li hanno attivati. E peraltro dalla stessa indagine si apprende che solo il 15% degli intervistati dichiara che i test genomici sono rimborsati nella sua regione. Ha quindi ragione Perrone quando afferma: “Una delle cause principali di inequità è insita nella struttura federale della nostra sanità che non garantisce a tutti i cittadini italiani di avere gli stessi diritti in materia diagnostica e terapeutica. Un tentativo di superamento delle inequità è stato fatto nel 2021 con una norma dello stato centrale per i test genomici relativi ai tumori della mammella (che facilitano la decisione sul fare o non fare la chemioterapia in un sottogruppo di pazienti); in questo caso, il Ministero ha stanziato i fondi e li ha distribuiti alle regioni tenendo conto del numero presunto di pazienti che ne potrebbero beneficiare”.

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La tecnologia fa risparmiare

Insomma, la genetica permetterebbe di curare meglio i tumori, così come di evitare di trattare persone che non beneficierebbero delle cure. Il ché si traduce in un risparmio di denaro, ma anche, e sorprattutto, di fatica dei pazienti. Non solo: le tecnologie disponibili in questo senso sono in continuo avanzamento, la vera sfida è trasformare questa rivoluzione in un efficientamento del sistema di cui tutti beneficeranno.

Eppure, una indagine fatta da tre associazioni di pazienti europee ci informa, ad esempio, che in Italia solo il 2% delle indagini genetiche viene condotto con la Ngs, la migliore tecnologia disponibile per identificare le mutazioni. Ovvio che per diffonderla maggiormente ci sarebbe bisogno di modernizzare le strumentazioni. Ed è stato calcolato che servirebbero 24 milioni di euro da aggiungere a quelli già stanziati nel 2020 per la diagnostica molecolare.

Ma forse, più che mettere soldi sul piatto, servirebbe, però, integrare le più aggiornate tecnologie di sequenziamento nei Lea, ovvero nelle prestazioni che devono essere garantite ai cittadini. Perlomeno, spiega Perrone: “Nei casi in cui farli consente un risparmio per il SSN rispetto alla somma dei test genetici tradizionali, comunque necessari per garantire ai pazienti le migliori terapie. Come, ad esempio, per i tumori del polmone. Ma i casi aumenteranno nel tempo, via via che aumenterà il numero di farmaci per i quali è necessaria la diagnosi di un biomarcatore, e via via che si abbasserà il costo dei test; che comunque resta marginale rispetto a quello dei farmaci di ultima generazione”.

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Insomma, la questione sul piatto è: la tecnologia rende le terapie antitumorali sempre più efficaci e potrebbe essere un grande aiuto anche per ottimizzare il sistema di modo da renderlo persino più equo. Ma sia i costi sia l’obiettiva complessità del fare e prendere decisioni “di precisione” impone, allora, una organizzazione dell’oncologia, con fondi adeguati per test e farmaci, ma anche, e forse soprattutto, con delle reti che colleghino i presidi ospedalieri vicini alla residenza del malato con i centri altamente specializzati (i grandi ospedali, gli Irccs) dove siano presenti tecnologie complesse e costose, e competenze capaci di usarle al meglio.

Gli addetti ai lavori le chiamano “reti oncologiche” e ne parlano da anni. Ma restano per lo più una vana speranza, e sono pochissime le regioni che le hanno attivate. “Le reti decollano laddove la politica vuole farle decollare”, chiosa Perrone. Ma resta che sono l’unico modo per rendere “equa” la nuova oncologia, e per assicurare a tutti le cure migliori. Nella consapevolezza, com’è ovvio, che servono i soldi per farlo. “Sostenere le spese utili (intendo tutte quelle utili) per i pazienti va considerato un obbligo di un sistema sanitario come quello italiano. Se i soldi non bastano se ne devono trovare altri, e per molti anni questo non è stato fatto, anzi”, conclude lo specialista. Per garantire, tuttavia, che la parola “utili” sia il faro, è necessario che le terapie siano appropriate. Date alle persone giuste (che ne possano realmente beneficiare) nel modo giusto. La comunità scientifica oggi è concentrata su questo, e su come la tecnologia possa aiutare, partendo da Chicago.



www.repubblica.it 2022-06-01 05:27:00

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