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Ormoni (ma non solo), così si spera di rigenerare il cuore dopo l’infarto

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Arrivare presto. Quanto prima dall’inizio dei sintomi si giunge in ospedale per le cure dell’ischemia, con conseguente inizio dei trattamenti, tanto minori saranno i danni dell’infarto sul cuore.  Questa è la prima regola per preservare il muscolo cardiaco, visto che le cellule del miocardio, una volta morte per la mancanza di ossigeno, non possono essere sostituite, lasciando al loro posto una cicatrice. Almeno per ora è così. Ma la ricerca sta tentando in ogni modo di ridare fiato e soprattutto vita ai miocardiociti, visto che in questo modo si potrebbero lenire i danni cronici dell’a carenza di ossigeno per il cuore. Il percorso è ancora agli inizi ma, almeno in chiave sperimentale, si stanno sviluppando vie diverse per provare a porre rimedio al naturale processo di morte senza possibilità di sostituzione delle cellule cardiache.

In questo senso va la ricerca internazionale coordinata da studiosi dell’Università di Bologna, che ha concentrato l’attenzione su alcuni ormoni steroidei, i glucocorticoidi. Lo studio, apparso su Nature Cardiovascular Research, individua tra i diversi fattori che impediscono la rigenerazione cellulare del miocardio anche questi ormoni che avrebbero un ruolo nel processo di maturazione e sviluppo dei miocardiociti. In pratica, stando all’indagine, i glucocorticoidi dopo la nascita spingerebbero le cellule muscolari del cuore a maturare, bloccandone al tempo stesso la proliferazione. I glucocorticoidi sono ormoni che entrano in gioco quando dobbiamo gestire lo stress, ma giocano altri ruoli importanti, tra cui quello di favorire lo sviluppo dell’organismo ed in particolare la maturazione polmonare.

La capacità di rigenerarsi dopo un infarto

Analizzando il tessuto cardiaco gli studiosi guidati da Gabriele D’Uva hanno visto che anche nel tessuto cardiaco aumenta quantitativamente il recettore per i glucocorticoidi, con un suo possibile ruolo nella maturazione delle cellule del miocardio e conseguente azione negativa nella rigenerazione in età adulta. Sull’animale si è dimostrato che se si elimina questo recettore, chiamato GR, si limita il differenziamento delle cellule muscolari cardiache e quindi si “riporta indietro” l’orologio che le guida, mantenendole in stato di immaturità e quindi ponendole in grado di riprodursi, se necessario, dopo un infarto. Insomma, come spiega D’Uva, “la delezione del recettore per i glucocorticoidi si è dimostrata capace di aumentare la capacità delle cellule del muscolo cardiaco di replicarsi a seguito di infarto miocardico, promuovendo nel giro di poche settimane un processo di rigenerazione del cuore”.

Tra le strade del futuro per il trattamento dei danni dell’infarto, poi, potrebbe esserci l’utilizzo dell’RNA-messaggero, venuto prepotentemente alla ribalta per i vaccini per Covid-19 ma già da tempo sotto la lente d’ingrandimento degli esperti per la terapia di diverse patologie. A proporre questa ipotesi è uno studio degli esperti dell’Università di Houston, guidati da Robert Schwartz, Hugh Roy e Lillie Cranz Cullen, che hanno pubblicato un rapporto su Journal of Cardiovascular Aging. L’m-RNA in questo caso diventa una sorta di “informatore” guidato per la crescita di cellule staminali, grazie all’azione di due specifici fattori di trascrizione mutati, chiamati Stemin e YAP5SA. Questi due invisibili “regolatori” insieme favoriscono la replicazione delle cellule miocardiche dell’animale ed ora si sta cercando di “riportare indietro” l’orologio delle cellule cardiache per farle ritornare ad uno stato più simile a quello delle staminali e quindi riuscire a dare loro la possibilità di trasformarsi in cellule cardiache quando necessario. Al momento la ricerca è limitata alle primissime fasi di laboratorio.

Il ruolo dei globuli bianchi

Un altro settore in grande fermento è quello che studia le possibili azioni del sistema immunitario sui processi di rigenerazione cardiaca.  In questo caso l’attenzione si concentra in particolare su cellule che possono avere una doppia azione, particolari globuli bianchi chiamati macrofagi. A segnalarne l’importanza è una ricerca pubblicata su Journal of Clinical Investigation, condotta da studiosi dell’Ann & Robert H. Lurie Children’s Hospital di Chicago e del Feinberg Cardiovascular Research Institute della Northwestern University. Stando allo studio i macrofagi avrebbero una doppia azione, che si esplica immediatamente dopo l’infarto.

Macrofagi cattivi e buoni

Da un lato svolgono un ruolo di “spazzini” che ripuliscono l’organo dal tessuto miocardico morto, dall’altro però favoriscono il rilascio di un fattore di crescita per i vasi chiamato VEGFC che innesca la formazione di nuovi vasi linfatici e promuove la guarigione. L’idea degli studiosi è di riuscire a limitare l’azione dei macrofagi “cattivi” a vantaggio di quelli buoni e quindi fare in modo che i macrofagi stessi si specializzino ancor di più nella produzione di VEGFC, con la possibilità di accelerare i processi di riparazione del cuore. L’obiettivo, in ultima analisi, è preservare una porzione più ampia di miocardio riducendo i rischi di futuro scompenso cardiaco.

Infine, si lavora sempre per un utilizzo sempre più mirato delle cellule staminali. In questo senso, uno studio della Mayo Clinic coordinato da Andre Terzic apparso qualche tempo fa su NPJ Regenerative Medicine, mostra che il trattamento con cellule staminali cardiopoietiche potrebbe rovesciare completamente la lesione nei topi e quindi ridare tono e vigore all’area colpita dalla lesione infartuale. La ricerca è stata condotta nei topi e ha dimostrato che il trattamento è riuscito a riportare indietro, almeno in parte, il tessuto cardiaco come era prima della grave crisi ischemica. Attualmente queste cellule sono in studio anche nell’uomo.

Il cerotto che rilascia staminali

Per prevenire lo scompenso cardiaco che fa seguito ad un infarto particolarmente esteso in futuro si potrebbe puntare anche su su un “cerotto” destinato a rilasciare staminali da applicarsi sul cuore in corrispondenza della lesione, già testato con soddisfacenti risultati sul coniglio. La ricerca su questa tecnica è stata coordinata da Sian Harding dell’Imperial College di Londra. Gli scienziati britannici hanno dimostrato che nel coniglio il trattamento è sicuro e che, soprattutto, col tempo le cellule staminali riescono a trasformarsi in unità miocardiche capaci di contrarsi, vicariano la funzione di quelle che hanno sofferto la carenza di ossigeno e nutrimento fino a morirne. Il cerotto misura tre centimetri per due e contiene oltre 50 milioni di cellule staminali umane, programmate per diventare cellule miocardiche in grado di contrarsi. E non dimentichiamo che si lavora anche per la “ricostruzione” del tessuto di sostegno del cuore, sempre nell’ottica di limitare i danni dell’infarto nel tempo. Basti pensare in questo senso alla metodica terapeutica studiata al Centro Cardiologico Monzino chiamata “Cardiac Pro-angiogenic Cell Plus – CPCPlus”. Tutto parte dalla scoperta di cellule del cuore battezzate CD90 negative. Si tratta di un sottotipo di cellule stromali del cuore umano, cioè le cellule dell’impalcatura del cuore, che hanno una particolare capacità di indurre neo-vascolarizzazione.  Si è trovato il modo di isolarle, selezionarle ed iniettarle nel cuore colpito da ischemia per stimolare in maniera molto efficace la creazione di nuovi vasi (angiogenesi terapeutica) all’interno del tessuto miocardico. In pratica si crea nel cuore un nuovo microcircolo sanguigno, in alternativa a quello danneggiato e fuori uso del paziente.



www.repubblica.it 2022-06-27 12:19:54

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