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Forum 180. Gorlani: “Per noi famigliari l’obiettivo è curare al meglio delle nostre p…

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di Maria Gorlani

Vi sono regioni, o addirittura DSM all’interno della stessa regione, o persino CSM all’interno dello stesso DSM, che non offrono praticamente nulla e costringono le famiglie a ricorrere al privato. Non è vero che tutti hanno gli stessi diritti: ci sono persone di serie A e persone di serie B. Vi sono persone molto seguite e persone praticamente abbandonate, insieme alle loro famiglie. Dipende dall’area geografica in cui si vive (è la cosiddetta “lotteria dei codici postali”), e purtroppo anche dal reddito delle famiglie

11 NOV

È un po’ come quando senti che stai affogando, e ogni volta che risali in superficie una nuova onda ti ributta sotto, e però ad un certo punto da lontano intravedi la terraferma: non sai se ce la farai a raggiungerla, ma ti viene un po’ più di forza per continuare a provarci.

È così che mi sono sentita leggendo “Oltre la 180” di Ivan Cavicchi. Non è un libro facile, per noi famigliari non addetti ai lavori, è dai tempi in cui studiavo Filosofia al liceo che non facevo così fatica a seguire un testo, però il contenuto vale davvero lo sforzo.

“Oltre la 180” parla di quello che noi famiglie viviamo ogni giorno sulla nostra pelle, ma che raramente ho sentito descrivere e circostanziare così bene.

Dice che le cose in Salute Mentale in Italia non vanno così bene come si vuol far credere (quanta apologia ho ascoltato durante il Global Mental Health Summit 2022!); spiega perché in questi quarant’anni il sogno di Basaglia si è infranto – insieme alla vita delle nostre famiglie – contro la burocrazia e l’arbitrarietà che imperversano nei nostri CSM.

Osa affermare che la scarsità di risorse economiche – che pure è reale – non è il problema principale della Salute Mentale e che per ottenere più risorse è necessario dimostrare alla società il valore dei servizi proposti; immagina operatori “equilibristi”, che da una parte conoscono le tecniche evidence-based della medicina scientifica e dall’altra, usando la loro autonomia e personalizzando la cura sul paziente, le sanno utilizzare secondo la logica pragmatica dell’adeguatezza: è valido e vero solo quello che funziona davvero sul paziente, contano solo i risultati.

Ma la parola che più mi ha incantato nel libro è “prassi”: il modo di fare è più importante dell’idea di servizio.

Mi è venuto spontaneo il collegamento con un evento che ho seguito all’interno del Màt – Settimana della Salute Mentale di Modena, in cui la dott.ssa Maria Grazia Giannichedda, sociologa, che ha lavorato a fianco di Basaglia fin da giovane, per lo più come volontaria, raccontava la sua storia. Ha fornito diversi scorci di vita su come erano organizzate le attività a Trieste, dopo la chiusura del manicomio: raccontava di gruppi di operatori e volontari disponibili 7×24, pronti ad intervenire sulle segnalazioni di problemi generati dai pazienti in giro per la città (es. una rissa in un bar).

Negli interventi, oltre a gestire il paziente, in qualche modo formavano anche i cittadini comuni (es. il titolare del bar) su come confrontarsi con una persona con un disturbo psichico, per evitare situazioni simili in futuro. Altro caso: un paziente, che rifiutava ogni tipo di cura dopo essere uscito dal manicomio, è stato seguito (direi più “inseguito”) per ben sette anni, con idee continuamente nuove per cercare di agganciarlo, finché finalmente ci sono riusciti facendo leva su un suo interesse particolare, la montagna.

Vi ritrovate con la vostra esperienza nel vostro CSM? Purtroppo, io no; e se Basaglia diceva “ora si sa cosa si può fare”, io voglio aggiungere: se si può, si deve.

Il libro rende omaggio al coraggio riformatore di Basaglia, ma offre altrettanto coraggio sia nell’analisi della situazione attuale sia nella proposta della strada da prendere: al coraggio del pensiero, il prof. Cavicchi risponde con il coraggio del pensiero. Non si nasconde dietro le apologie così diffuse tra gli addetti ai lavori e persino in alcune associazioni di familiari, nè dietro il senso comune, ed evidenzia le contraddizioni che io e la mia famiglia sperimentiamo sulla nostra pelle continuamente.

A fronte dello sforzo di verità del prof. Cavicchi, temo che da parte di molti operatori (non di tutti, sia chiaro) non ci sarà altrettanto coraggio autocritico. Molti restano arroccati sui loro trascorsi ideologici, sulla salvaguardia della loro zona di confort nel modo di lavorare, sulla loro irrinunciabile presunzione di possedere la verità.

Fortunatamente, vedo che ad altri operatori il coraggio riformatore non manca, e alcuni dei temi trattati dal prof. Cavicchi sono ripresi da molti interventi nel Forum 180 promosso da Quotidiano Sanità (Ceglie, Carozza, Ducci, Favaretto, Angelozzi, Nicolò).

Ad esempio, l’analisi del cambiamento della domanda di cura, quindi di assistenza, di prevenzione e di riabilitazione per i disturbi psichici. Dalla nascita della legge 180 ad oggi, sono cambiati il concetto di malattia mentale, la sua estensione sociale, i cittadini che soffrono di disturbi psichici, le loro problematiche sia cliniche che sociali, e sono cambiati anche i problemi delle loro famiglie. Siccome le famiglie non sono separabili dagli utenti che ne fanno parte, non è possibile pensare ai loro problemi senza pensare ai problemi delle famiglie.

A fronte di questo cambiamento epocale, sono d’accordo con chi nel Forum 180 ha sottolineato l’esigenza primaria di ripensare anche radicalmente i servizi pubblici che lo Stato offre: come dice la dott.ssa Ceglie, oggi i nostri DSM sono delle carriole lente e sgangherate; quindi, è tempo di provvedere alla loro rapida riorganizzazione.

Altro tema molto interessante nel libro del prof. Cavicchi, ripreso da alcuni importanti interventi nel forum, è la necessità di proteggere in modo adeguato chi soffre di un disturbo psichico dal rischio dell’arbitrio. Io vorrei essere certa che i trattamenti che mio figlio riceve nel servizio pubblico siano conformi alle evidenze scientifiche, cioè siano garantiti da conoscenze comprovate, da esperienze convalidate, in nessun modo sono favorevole a far prevalere le convinzioni ideologiche su quelle scientifiche.

Ha ragione il prof. Cavicchi: nella salute mentale non è giusto che ognuno faccia quello che gli pare. Le psicoterapie che mio figlio riceve non devono essere quelle che piacciono agli psicoterapeuti, ma devono essere quelle che vanno bene per mio figlio. Si tratta di capire quali psicoterapie ammettere e quali no.

Allo stesso modo, se mio figlio ha bisogno di essere trattato con i farmaci, non c’è ideologia che tenga: mio figlio deve essere curato anche con i farmaci. Sia chiaro: a me per prima, come madre, interessa che mio figlio sia rispettato in tutti i suoi diritti, ma tra i diritti di mio figlio c’è anche quello di ricevere le miglior cure possibili.

Mi è piaciuta l’idea che ogni Dipartimento di Salute Mentale definisca e approvi quello che il prof. Cavicchi chiama il “repertorio delle modalità” (che a mio parere deve poggiare sulle linee guida della letteratura scientifica internazionale e sulle buone prassi definite all’interno del “Piano di azioni nazionale per la salute mentale” italiano e dei conseguenti PDTA), all’interno del quale il singolo operatore usa la propria autonomia per scegliere quelle più adeguate ai bisogni personali e singolari degli utenti.

Dicano con chiarezza i dipartimenti che cosa fanno ai nostri familiari. Quali trattamenti garantiscono e quali non garantiscono.

Il terzo tema che volevo evidenziare tra quelli trattati dal prof. Cavicchi, e sul quale anche la nostra associazione è molto focalizzata, è la formazione degli operatori. Come famigliare mi domando: se chi cura mio figlio non ha la preparazione giusta, come posso pensare che mio figlio sarà curato al meglio?

Il libro denuncia il problema di una università completamente separata dai servizi sul territorio: è come se università e servizi avessero in mente due concetti di salute mentale diversi, due pazienti diversi, forse anche due tipi di famiglie diverse. E a farne le spese sono proprio i pazienti e le famiglie.

La quarta ed ultima cosa alla quale mi limito solo a fare un accenno è la questione del privato e del pubblico. Il prof Cavicchi anche su questo punto è molto chiaro. C’è troppo privato e troppo poco pubblico. Quello che lo Stato garantisce a chi ha un disturbo psichico è sempre meno di quello di cui egli ha bisogno. E per di più, quello di cui l’utente ha bisogno nel nostro Paese è interpretato nel modo più difforme.

Vi sono regioni, o addirittura DSM all’interno della stessa regione, o persino CSM all’interno dello stesso DSM, che non offrono praticamente nulla e costringono le famiglie a ricorrere al privato. Vorrei ricordare che il disturbo psichico alle nostre famiglie costa moltissimo, e che non tutte le famiglie hanno i mezzi per curare come si deve i loro cari.

Non è vero che tutti hanno gli stessi diritti: ci sono persone di serie A e persone di serie B. Vi sono persone molto seguite e persone praticamente abbandonate, insieme alle loro famiglie. Dipende dall’area geografica in cui si vive (è la cosiddetta “lotteria dei codici postali”), e purtroppo anche dal reddito delle famiglie.

Mi sento di ringraziare il prof. Cavicchi per la forza e l’onestà intellettuale con cui è scritto il libro; mi sembra di poter dire che condivide davvero gli stessi obiettivi di noi famigliari: curare al meglio delle nostre possibilità i nostri cari, nei servizi pubblici, rispettando i loro diritti, incluso quello di godere di tutte quelle opportunità di cura, di prevenzione e di riabilitazione delle quali necessitano.

Maria Gorlani

Associazione Famiglie in Rete OdV

Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci, Fioritti, Pizza, d’Elia, Cozza, Peloso, Favaretto, Starace, Carozza,Thanopulos, G.Gabriele, Quintavalle, Nicolò, Ceglie, Lasalvia, Montibeller, Moro

11 novembre 2022
© Riproduzione riservata


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www.quotidianosanita.it 2022-11-11 08:26:00

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