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Alzheimer, la malattia nasce 18 anni prima: gli otto segnali del countdown

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È come una mappa, all’interno della quale il nostro cervello comincia a non orientarsi, a perdere pezzi. L’Alzheimer arriva così, spiazzandoci anno dopo anno. Il fatto è che i segnali del suo arrivo possono manfestarsi molto prima, 18 anni per la precisione secondo i ricercatori cinesi che hanno analizzato il fenomeno dal punto di vista del suo presentarsi nel tempo, team guidato dagli scienziati del Centro di innovazione per i disturbi neurologici – Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale Xuanwu – che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di diversi istituti. Così si è scoperto come e quando l’Alzheimer può bussare alla nostra porta: il “come” è dato da una serie di otto segnali precisi che compaiono entro i 18 anni precedenti il manifestarsi della malattia.

L’Alzheimer arriva anche da giovani

Vent’anni prima (della vecchiaia) si affaccia sulla nostra vita, ma l’Alzheimer può arrivare anche quando si è nolto giovani. Lo studio cinese pubblicato su The New England Journal of Medicine è stato svolto in collaborazione con diversi istituti, fra cui il Centro per la malattia di Alzheimer Istituto di Pechino per i disturbi cerebrali; l’Ospedale Anding e il Dipartimento di Psichiatria dell’Ospedale popolare provinciale di Zhejiang. E ha accertato che la variazione nella concentrazione di determinate proteine (placche di beta amiloide e grovigli di proteina tau) e le alterazioni nel tessuto cerebrale compaiono in sequenza e a tappe definite, fino a sfociare nella condizione patologica. Va ricordato che l’accumulo di beta amiloide, pur essendo considerato tra i principali segni associati all’Alzheimer, non è presente in tutte le persone colpite.
Il manifestarsi in netto anticipo delle firme biologiche della demenza era cosa conosciuta per le forme ereditarie della patologia, che può sorprendere anche in età molto precoce (va ricordato il caso di un ragazzo malato di Alzheimer già a 19 anni) ma, grazie alla nuova ricerca, la progressione temporale dei biomarcatori dell’Alzheimer è stata osservata anche nella sua forma sporadica, che poi è quella maggiormente diffusa.

Cos’è e quante persone ne soffrono

Cos’è la malattia di Alzheimer? Sintetizzando è la forma più comune di demenza: una malattia neurodegenerativa che uccide progressivamente le cellule nervose, soprattutto quelle nelle aree del cervello che regolano i processi di apprendimento e memoria. Il sintomo principale? La perdita della memoria a breve termine. Se si guardasse nel cervello di una persona con Alzheimer, si vedrebbero neuroni sofferenti circondati da matasse di una proteina dannosa, la beta-amiloide, accerchiate da cellule infiammatorie che diventano anch’esse pericolose. Il cervello viene danneggiato a diversi livelli: oltre alla degenerazione delle cellule nervose, si hanno danni ai vasi sanguigni e uno stato di infiammazione cerebrale persistente.

I malati di Alzheimer nel mondo

Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) i casi di demenza nel mondo sono oltre 55 milioni e si stima che, per via dell’aumento progressivo dell’età media della popolazione, questo numero sarà destinato a crescere, raggiungendo i 78 milioni entro il 2030. Di tutti i casi, il 60-80% è rappresentato dalla malattia di Alzheimer. In Italia, secondo le stime fornite dall’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità, circa 1,2 milioni di persone soffrono di demenza, di cui il 50-60% (600 mila persone), sono malati di Alzheimer e circa 900.000 mostrano un disturbo neurocognitivo minore (Mild cognitive impairment) che potrebbe convertire ad Alzheimer conclamato. Inoltre, sono circa 3 milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte (parenti, assistenti sanitari, medici).

Lo studio cinese

Venendo allo studio cinese, i ricercatori coordinati dal professor Jianping Jia, hanno condotto un’indagine caso-controllo multicentrico con migliaia di partecipanti, tutti coinvolti nello studio China Cognition and Aging Study (COAST) eseguito fra gennaio 2000 e dicembre 2020. In che cosa consiste? In quei 20 anni una parte dei volontari è stata sottoposta a una serie di esami regolari (ogni due o tre anni), fra i quali test del liquido cerebrospinale (CSF), scansioni cerebrali e valutazione della funzione cognitiva attraverso test standardizzati alla stregua del Clinical Dementia Rating-Sum of Boxes (CDR-SB). I partecipanti erano uomini e donne sia di mezza età che anziani (età media 61 anni, di cui il 50,6% maschi) che al basale avevano tutti uno stato cognitivo normale. I ricercatori hanno messo a confronto e abbinato i casi di 648 individui che hanno mantenuto una cognizione sana (gruppo di controllo) con 648 persone che, durante il periodo di follow-up durato esattamente 19,9 anni, si sono ammalati di Alzheimer.

Gli otto segnali che annunciano la malattia nel tempo

Questa procedura ha consentito di analizzare e abbinare i risultati degli esami condotti a intervalli regolari, e ha reso possibile determinare in quale momento e in che modo si sono manifestati i biomarcatori della neurodegenerazione, fino alla comparsa del declino cognitivo e alla diagnosi di demenza. Ecco i segnali che ci dicono che l’Alzheimer sta attaccando il nostro cervello.

1 – Il segnale più precoce a emergere è stato un aumento nella concentrazione della proteina beta-amiloide 42 nel liquido cerebrospinale (o cefalorachidiano), già rilevabile 18 anni prima della diagnosi di Alzheimer.

2 – A 14 anni dalla diagnosi è stata rilevata una differenza nel rapporto tra beta-amiloide 42 e beta-amioide 40, in pratica due forme di proteine “appiccicose”, il cui accumulo nel sistema nervoso è associato alla neurodegenerazione.

3 – A 11 anni il team di ricerca ha osservato un incremento della proteina tau 181 fosforilata nel gruppo Alzheimer.

4 – A 10 anni è stato l’incremento della tau nel suo complesso ad emergere come anomalia.

5 – A 9 anni sono stati rilevati i primi segnali del danno neuronale, provocato dalla presenza della catena leggera del neurofilamento (NfL) nel liquido cerebrospinale, che riguarda in particolar modo gli assoni.

6 – A 8 anni le risonanze magnetiche hanno evidenziato nel gruppo Alzheimer l’atrofia dell’ippocampo, una parte del cervello coinvolta nella cognizione.

7 – A 6 anni dalla diagnosi è risultato evidente il declino cognitivo attraverso i test standardizzati per valutare la demenza.

8 – Oltre a questa progressione, il professor Jia e colleghi hanno rilevato che nel gruppo Alzheimer c’era una maggiore probabilità (37,2% contro 20,4% del gruppo di controllo) di essere portatori di una variante genetica chiamata APOE4. Il dato conferma l’associazione, già venuta alla luce in passato, tra questa variante del gene coinvolto nel metabolismo e nel trasporto dei lipidi nel cervello e la forma di demenza più diffusa al mondo.

Rossini: “Lo studio dà solo conferme”

Definisce la ricerca cinese “impressionante per la numerosità dei soggetti reclutati e l’arco temporale nel corso del quale sono stati seguiti”. Ma, subito dopo, il professor Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’Irccs San Raffaele di Roma, si affretta a precisare: “Il realtà le conclusioni dello studio confermano molte informazioni note da tempo, e cioè che l’accumulo di un matobolita di beta-amiloide, che non è solubile e tende a formare frammenti che poi si depositano in placche, avviene per primo tra 18 e 14 anni prima dell’esordio dei sintomi. Conferma anche il fatto che la presenza di metabolita della proteina tau, che poi porta alla formazione di grovigli neurofibrillari dentro i neuroni, compare circa 11 anni prima dell’esordio clinico e che i segni di morte neuronale appaiono circa 9 anni prima”.

Le tesi consolidate

Rpssini prosegue: “Inoltre consolida la tesi secondo cui la perdita di volume di alcune aree cerebrali che vanno incontro ad atrofia misurabili con la Risonanza magnetica compare circa 8 anni prima, e infine testimonia che i primissimi disturbi cognitivi verificabili con i test neuropsicologici comparirebbero circa 6 anni prima dell’esordio vero e proprio. Si capisce bene che rispetto al momento della diagnosi c’è un lunghissimo lasso di tempo durante il quale la malattia lavora nel buio e progredisce. Un lasso di tempo la cui durata è variabile da soggetto a soggetto perché bilanciato da fattori di resilienza, quali la Riserva cognitiva e la Riserva neurale di cui ognuno di noi è dotato. Quest’ultimo dato è un elemento di crescente interesse su cui a breve sarà il caso di soffermarci”.

“Nessun dato predittivo evidente”

In conclusione, Rossini evidenzia: “Va però sottolineato che lo studio cinese non fornisce alcun dato predittivo scientificamente evidente, nel senso che non permette con uno strumento altamente sensibile e specifico di prevedere con accuratezza elevata (diciamo superiore al 90%) che è ad altissimo rischio o meno di sviluppare la malattia.
Un elemento di conoscenza in più pubblicato su una rivista di altissimo prestigio, ma nulla che cambierà a breve la vita dei nostri malati e delle loro Famiglie, nè l’organizzazione sanitaria epr contrastare la malattia”.

Donne due volte più a rischio degli uomini

Infine, da un altro studio, portato a termine dai i ricercatori della Case Western Reserve University, a capo dei quali figura David Kang e pubblicato sulla rivista Cell, è risultato che le donne si ammalano di Alzheimer circa due volte di più degli uomini. Una possibile spiegazione di questa maggiore vulnerabilità sarebbe data dal fatto che le donne mostrano nel cervello una deposizione di proteina tau più alta. Perché il processo di eliminazione della tau in eccesso inizia con l’aggiunta di ubiquitina alla proteina tau.

Visto che la disfunzione di questo processo può portare a un accumulo anomalo di tau, Kang e l’autore co-senior dello studio Jung-A Woo hanno cercato una maggiore attività dei sistemi enzimatici che aggiungono o rimuovono il tag ubiquitina. E hanno scoperto che sia i topi femmine che gli esseri umani dello stesso sesso esprimono naturalmente livelli più elevati dell’enzima USP11 nel cervello rispetto ai maschi e che ciò è collegato alla patologia della tau cerebrale nelle femmine, ma non nei maschi.



www.repubblica.it 2024-02-27 16:09:02

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