Tutte le notizie qui
Backaout
Backaout

Tumore al seno: colpire le cellule “dormienti” per prevenire le recidive

16

- Advertisement -


Tra le tante strategie che il cancro al seno mette in atto per sopravvivere c’è anche l’ibernazione. La scoperta, fatta dal gruppo dell’italiano Luca Magnani (allora all’Imperial College di Londra), risale al 2019: le cellule del tumore al seno ormono-sensibile – che rappresenta oltre il 70% dei casi – possono entrare in una sorta di letargo per poi risvegliarsi anche molti anni dopo. Oggi a quella scoperta si aggiunge un tassello importante, che potrebbe portare a un nuovo approccio per ridurre il rischio di recidive nel lungo periodo.

La newsletter di salute Seno – Come iscriversi

La via dell’epigenetica

Il nuovo studio, pubblicato su Cancer Discovery, svela infatti il modo in cui le cellule entrano in ibernazione: a controllare questa capacità sono meccanismi epigenetici, ossia meccanismi reversibili che cambiano il modo in cui il Dna viene letto, senza alterare il Dna stesso (senza, cioè, che avvengano mutazioni). Tra questi vi è una modifica catalizzata da un particolare enzima, chiamato G9a. E in effetti, le donne con una bassa espressione di tale enzima sembrano avere un rischio inferiore di recidiva a distanza di anni: una prova indiretta che la strada appena scoperta possa essere quella giusta. Magnani e i colleghi del Breast Cancer Now Toby Robins Research Centre presso l’Institute of Cancer Research (ICR) di Londra hanno anche dimostrato, in vitro, che è possibile evitare che le cellule entrino nello stato di ibernazione, ed ucciderle, proprio bloccando l’enzima G9a.

Un nuovo scenario

“È un grande passo avanti rispetto a quanto avevamo scoperto nel 2019 – dice Magnani a Salute Seno – In questo nuovo studio abbiamo applicato tecnologie innovative per capire come evolve il tumore in risposta alla terapia ormonale. Nello specifico abbiamo taggato ogni singola cellula tumorale e abbiamo riprodotto quello che succede durante il trattamento”.

Quando si somministrano le terapie ormonali è come se si inducesse un ‘inverno’, spiega il ricercatore. Le cellule possono seguire due strade: morire o andare in ibernazione. “Abbiamo osservato che circa il 70% muore, ma il 30% va invece in ibernazione. Non è però uno sforzo passivo: le cellule si devono adattare, si devono mettere dei “cappotti”, metaforicamente parlando. Bene, questo adattamento non avviene con mutazioni, ma con meccanismi epigenetici. E se noi blocchiamo questi meccanismi, impediamo loro di indossare il cappotto”. Si tratta di uno studio preclinico – puntualizza il ricercatore – ma apre uno scenario importante: la possibilità di intervenire sul processo epigenetico di adattamento del tumore, e non solo sulle mutazioni: “È un grande cambiamento di paradigma nel tumore al seno e nei tumori in generale”.

Il rischio di recidiva nel tempo

I tumori del seno e della prostata sensibili agli ormoni sono gli unici due tipi di cancro che possono dare recidive lontano nel tempo, ma sono anche i tumori più comuni. Le donne con tumore al seno ormono-sensibile, in particolare, vengono trattate con farmaci che arrestano la produzione di estrogeni e che bloccano l’interazione tra gli estrogeni e le cellule tumorali. 

Queste terapie vengono assunte per un periodo variabile, tra i 5 e i 10 anni, a seconda del rischio individuale di avere una recidiva (in aggiunta o meno alla chemioterapia). È noto però che permane un rischio, seppur basso, che questo tipo di tumore possa ripresentarsi anche a distanza di 10-15 anni, o persino dopo più di 20. E una delle cause, secondo i ricercatori, è proprio la capacità di alcune cellule di entrare in uno stato dormiente.

Sebbene si tratti di ricerche in stadio iniziale, i nuovi risultati indicano un possibile nuovo target terapeutico: “È fondamentale rassicurare le pazienti – sottolinea Magnani – perché le attuali terapie ormonali funzionano molto bene. Quello che stiamo cercando di fare è migliorarle. Nei nostri test abbiamo utilizzato molecole che non sono pronte per entrare nella sperimentazione clinica: ora seguirà un programma di drug discovery per mettere a punto nuove molecole più selettive, che dovranno poi essere testate in modelli animali. E se i risultati saranno positivi – conclude – possiamo immaginare di arrivare alla sperimentazione sull’essere umano tra 5-10 anni”.



www.repubblica.it 2024-04-05 11:51:58

This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish. Accept Read More